100 uscite per la collana Nuovi Saggi Bollati Boringhieri (NSBB)


Quando, nel 2009, la Bollati Boringhieri venne acquisita dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol, la casa editrice aveva già una lunga storia alle spalle, una “potenza di fuoco” di circa cento titoli all’anno e parecchie (davvero tante) collane attive. Il nuovo direttore editoriale e amministratore delegato, Renzo Guidieri, avviò subito un piano di semplificazione e ottimizzazione, ma non rinunciò per questo a lanciare una nuova collana per segnare il cambio di passo. Così, nel 2010, hanno visto la luce i Nuovi Saggi Bollati Boringhieri, NSBB per gli amici.

Quindici anni dopo – con la pubblicazione de Gli altri figli di Dio di Catherine Nixey – ci troviamo a festeggiare l’uscita del centesimo titolo di quella che è diventata la collana “ammiraglia” della casa editrice del cielo stellato.

In origine era una collana cartonata, dedicata sostanzialmente alle tematiche scientifiche proprie del marchio, caratterizzata da una copertina bianca, molto visibile sui banchi delle librerie, con un titolo colorato di grandi dimensioni e un’immagine scontornata e incisiva. La grafica era stata affidata a Bosio Associati, e ha dato bella prova di sé per lungo tempo sui banchi delle novità. Molti dei titoli che sono stati pubblicati in questa collana hanno lasciato il segno, tanto che oltre un terzo della produzione si è guadagnata una seconda vita in formato tascabile. Dimostrazione di ottima salute.

Tra gli autori dei Nuovi Saggi – tutti stranieri – figura John Medina, che col suo Il cervello – Istruzioni per l’uso ha aperto la serie. Ma è sempre in questa collana che è stato lanciato in Italia il fisico britannico Jim Al-Khalili, con La fisica del diavolo, un libro che è ormai giunto alla quindicesima edizione ed è considerato un piccolo fenomeno di culto per gli appassionati del settore.

Scorrendo l’elenco dei titoli della collana ci imbattiamo in Guy Deutscher e il suo La lingua colora il mondo, David DiSalvo con Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi fare il contrario), Jonathan Gottschall con L’istinto di narrare, Mark Miodownik con La sostanza delle cose, Beau Lotto con Percezioni, John Bargh con A tua insaputa, Catherine Nixey con Nel nome della croce e, più recentemente, Harald Haarmann con Culture dimenticate. Sono tutti autori ormai attestati in libreria, che hanno trovato in questa collana il loro trampolino di lancio in Italia, e che nei loro lavori trattano di fisica, neuroscienze, linguistica, psicologia e storia, veicolando informazioni nuove e affascinanti grazie a un linguaggio diretto e immediatamente accessibile. È l’idea della scienza raccontata con garbo.

Copertine NSBB

Tra gli autori più recenti, poi, troviamo Paul Sen, Michael Brooks, Sarah Chaney, Gaia Vince, James Fox, Roma Agrawal, Helen Czerski e Richard Wingate: un parterre di eccellenze che rende la collana uno scrigno di scoperte.

Dal 2024 la NSBB ha cambiato “faccia”: ora è in brossura e la sua grafica è stata completamente rielaborata da cdm associati, con un gesto originale e un’eleganza tutta particolare. Due cerchi sovrapposti, uno colorato, l’altro nero e contenente un’immagine, si presentano al pubblico in ogni nuovo titolo, a significare la sostanziale serialità della proposta editoriale, il suo progetto unitario. Il sottotitolo del libro viene spostato in alto, le bandelle ripiegate riprendono il colore del cerchio in secondo piano.

Nuovi Saggi Bollati Boringhieri

Con l’ultimo libro della serie, il numero 100, l’idea del progetto appare più che evidente. Chi ha amato (e sono in molti) i libri e gli autori pubblicati qui negli ultimi quindici anni sa al primo sguardo che si può fidare del prossimo, nel quale troverà la stessa cura che già conosce, la stessa meraviglia per temi inaspettati, declinata su nuovi autori e nuovi argomenti, tutti da scoprire e apprezzare.

 

Fonte: www.illibraio.it


“Sono così dandy da essere ordinario”: le confessioni di Hans Tuzzi


Hans Tuzzi è autore ambivalente, persona sfaccettata e polimorfa, sembra quasi un personaggio dei suoi stessi libri.

Potresti incontrarlo a passeggio per Milano e quindi avere modo di conoscere la sua squisita ospitalità, ma non saprai mai, alla fine dei conti, chi avrai incontrato, chi davvero ti avrà offerto la colazione… intendo dire: l’autore di quale libro? Il saggio, il giallo, il criminale – ammesso che un uomo possa essere al contempo saggio, “giallo” e anche criminale?

Colui che è nell’ombra hans tuzzi

La verità è che Tuzzi è un letterato, allora da un letterato non ci si può aspettare altro che la letteratura, dunque anche l’inganno, la finzione e, soprattutto, la contraddizione. A tale proposito, avevo saputo, da fonti molto poco attendibili, che era lui stesso in procinto, se non l’ha già fatto, di mettere su un comitato, una sorta di associazione culturale, di erodiani – se così li potremmo definire – cioè simpatizzanti di Erode, dalla quale mi avrebbe per altro escluso avendo scritto, io, oltre al resto, non pochi libri per ragazzi o bambini. E invece, mi sembra di aver notato, in quest’ultimo suo libro, Colui che è nell’ombra (Bollati Boringhieri), e ancora di più nel precedente Curiosissimi fatti di cronaca criminale, una presenza importante dell’infanzia: sono i bambini, e solo i bambini, che riescono ad avere una visione completa della realtà, perfino quando questa ha a che fare con l’ombra o, appunto, dei curiosi fatti di cronaca criminale.

Mi piacerebbe partire da qui, dall’infanzia, in questo scambio con lo scrittore e soprattutto il letterato, proprio perché l’inganno, la finzione e la contraddizione, in realtà, appartengono oltre che alla letteratura, molto più all’infanzia che al mondo degli adulti.

Allora, la mia prima domanda è se possiamo pensare ad una sua, vogliamo dire, estraneità agli adulti? Una naturale simpatia per l’infanzia?
“L’infanzia è il mondo ancora umido della Creazione: tutti, sino ai tre, quattro anni siamo Adamo nel Giardino dell’Eden. Un nostro poeta ha detto: «chi ha avuto la gloria di una giovinezza pressoché priva di adulti nei dintorni se la porta sempre sotto la lingua». Poi si diventa adolescenti, e lì è il crinale. Esiste un male di stagione, il ‘genio dell’adolescenza’: chi lo contrae vive l’età dei grandi amori che ci fa amare le grandi cause, i grandi ideali, quando per non volerli svilire si rinuncia alla carriera nel secolo. Poi anche chi l’ha contratto cresce e – ahimè – i più si fanno tiepidi e guariscono. Diventano adulti. Giorno dopo giorno rinunciano a quei valori che più fan l’Uomo simile a Dio. Ma: «Verrò come un ladro», promette Dio nell’Apocalisse. E un ladro può rubarti il cuore, come sa Emily Dickinson: «So che Lui esiste. / Da qualche parte – in silenzio – / ha nascosto la sua vita rara / ai nostri goffi occhi. // È il gioco di un istante – / è un agguato amoroso – / giusto affinché la gioia / meriti la propria sorpresa!». Chi invece non guarisce fa il misero, il poeta o il martire: spesso, sotto le dittature, le tre figure coincidono”.

Lei non mi ha risposto, ma io non voglio darle soddisfazione, così alzo la posta: perché non si può (o almeno non con me) citare impunemente e nella stessa frase i ladri, Dio, l’apocalisse ed Emily Dickinson – che probabilmente è tutte e tre queste cose insieme. Ma lei ci crede in Dio?
“Be’, se mi fosse capitato, come a lei lo scorso agosto, di essere su tutti i giornali grazie al ladro che si fa arrestare in flagranza perché catturato dalla lettura di un mio libro, direi che il Destino non è sempre un cammello cieco, e dunque… (tra parentesi, questo amore per le buone letture sarà stato considerato attenuante? Spero di sì, in un Paese dove nemmeno la metà della popolazione legge almeno un libro all’anno). Parlando di me, potrei dire, con un mistico, che ciò che esiste non proietta ombra. Credo nel sacro, non nelle religioni. Ma il sacro è sovrumano, e spesso è terribile. Terribile era il riso degli dèi, e Benjamin sostenne che nella storia dell’uomo la commedia precedette la tragedia. Probabile, se si pensa alla potenza del riso per la quale Leopardi scrisse: «Grande tra gli uomini e di grande terrore è la potenza del riso. Chi ha coraggio di ridere è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire». Certo, non parliamo del ridere sgangherato dello stolto”.

Non mi sono fatto sfuggire questa cosa che ha detto riguardo ai miseri, i martiri e i poeti sotto le dittature – e da poeta non vorrei approfondire oltre – ma le dittature, come ben sa, non sono soltanto i fascismi, i nazismi o i comunismi, né gli attuali cialtroni che aspirerebbero anche a meno… ma a me sembra che sia il mercato, la peggior dittatura a cui dobbiamo sottostare negli ultimi decenni. Ecco, se anche il mercato che domina l’industria culturale è dittatura, che resta da fare a chi non è guarito dal genio dell’adolescenza?
“Scomparire, prima che ti faccia scomparire il mondo. Per un artista, e per chi fa letteratura, è la scelta più saggia. Come ha detto Gabriel Bounoure, «il silenzio di Rimbaud è più vivo di tutto quello che ha scritto». Ma al mondo son pochi ormai i luoghi in cui nascondersi, ri-conoscersi e serenamente morire. Ovunque ci sono ospedali, dove non si muore: ci si spegne, o da dove si va. In auto. A un cimitero troppo affollato eppure vuoto. Invece, al respiro rauco del mare, una pira, senza per forza essere Shelley. Una pira che arde mentre la notte scende. In fondo, è questione di stile. E lo stile… be’, ecco… lo stile… «Lo stile è cosa che mi prendo a cuore, mi agita orribilmente i nervi, mi contraria, mi rode. Ci son giorni nei quali ne sono malato», dice Flaubert immerso nel suo greve Ottocento. E invece Montaigne: «Sentii di aver raggiunto il vero stile quando riuscii a parlare alla carta come faccio con la prima persona che incontro». Ha ragione lui, così come ha ragione quando prega: «che la morte mi colga mentre pianto cavoli, indifferente a lei e al lavoro interrotto». Per Faulkner lo scrittore è «guidato da dèmoni», perciò, afferma, «penso che la storia imponga il suo stile in buona parte, che lo scrittore non abbia bisogno di preoccuparsi troppo dello stile. Nel caso in cui se ne preoccupi troppo, scriverà un vuoto pretenzioso, abbastanza bello e abbastanza piacevole all’orecchio, ma non ci sarà alcun contenuto». Lo stile è in noi, non è orpello. Pensi ai Tre racconti di Flaubert: ogni storia ha il suo ritmo, ma la voce è quella”.

Se posso farle un appunto, lei è un citazionista, fa troppe citazioni – ma la mia è chiaramente invidia: non le sto dietro, ne conosco si e no un quarto… Comunque: mi sembra che sia un po’ troppo proiettato all’indietro – e non solo quando risponde alle mie domande. Soprattutto nei suoi libri, va sempre a trovarsi delle ambientazioni del passato. Lo dico senza considerarlo un difetto, anzi, tutta la mia poetica si basa sul fatto che la vera letteratura può permettersi il lusso di parlare dell’attuale andando a rovistare nello ieri, quindi sono dalla sua, ma…
“Una lettrice mi ha definito «meravigliosamente al di là del presente»: confesso che ne vado fiero. Sì, con l’eccezione di Vanagloria e, in parte, Nessuno rivede Itaca, ho sempre ambientato i miei romanzi nel passato, perlopiù nel passato prossimo. E allora? Si sa che Balzac e Stendhal ambientarono i loro romanzi venti o trent’anni prima di quando li scrissero. Nel 1863 Tolstoj annuncia a un amico di star lavorando a «una storia degli anni 1810-20», ed è Guerra e Pace. Soltanto nel 1892 Zola pubblica La Disfatta, sulla guerra del 1870. Asturias pubblicherà Il signor Presidente ventott’anni dopo la morte di Cabrera, modello del protagonista. E gli antenati di Calvino non sono forse nostri contemporanei? Perciò, di che cosa stiamo parlando? Da sempre il romanziere lascia il profitto immediato del suo presente ad altri generi di scrittori – giornalisti, pamphlettisti, saggisti nel migliore dei casi. Lui riflette soltanto a partire da valori certi e da fatti dimostrati – magari per presentirne genialmente altri, come accade al Mann della Montagna incantata. Credo che i miei libri siano una non sbandierata ma costante e poco benevola analisi del nostro mondo. E i critici lo hanno colto molto bene, in modo chiaro. Nel 1885, in una lettera da Calcutta, Conrad riassume così la propria visione del mondo: «Io vivo soprattutto nel passato e nel futuro. Il presente, come può ben intendere, ha poche attrattive per me. Guardo agli eventi che accadono con la serenità della disperazione e l’indifferenza del disprezzo». Ciò non gli ha impedito di capire: pensi all’immagine iniziale di Cuore di tenebra, una nave da guerra che nell’immobilità della calura cannoneggia a caso un punto nell’immensità dell’Africa. Già lì, in un lampo, tutta l’ottusa inutilità del colonialismo. Poi, ma poi, tutto l’orrore. Possiamo davvero attribuire a Conrad l’indifferenza del disprezzo? Ecco, nel mio piccolo anche in me il disprezzo non sottintende indifferenza. Sono un dinosauro, come ha detto qualcuno? Ma i dinosauri van di moda, oggi, e in un racconto Calvino lo comprese con grande anticipo: meglio deinòs, terribile, del lieto infantilismo odierno, ai confini della Beozia”.

Sì, ma i dinosauri erano grandi, e la grandezza il loro difetto maggiore: il suo?
“Mi verrebbe da dire la pigrizia e perciò la scarsa capacità di applicazione nello studio, ma in realtà ho un limite più grave: una certa facilità al disprezzo, che oltretutto non so nascondere. Ma il disprezzo avvelena l’anima di chi lo prova, non di chi lo subisce”.

Ecco, il disprezzo lo riconosco. Insieme ad un po’ di irritazione in risposta alla mia domanda sul passato – quindi insisto, giro il coltello nella piaga: Colui che è nell’ombra è una specie di saga familiare dove l’Ombra incombe, appunto, come un peso psicoanalitico, premendo dal passato sul presente. Altro che essere “al di là del presente”, io ci ho visto tutta l’inquietudine del nostro attuale – e non voglio, Dio ce ne scampi, una risposta sulla nostra classe politica.
“La scintilla fu, non a caso, una foto di famiglia, scattata non nel 1937 ma a fine Ottocento: due uomini vestiti alla cacciatora e un enorme leone dalla folta criniera sdraiato ai loro piedi come un tranquillo cagnone. L’immagine risvegliò in me la consapevolezza di quanto per ogni singolo individuo l’eredità genetica conti, quasi come la Storia per i vecchi popoli e i vecchi continenti. Poi, certo, vi è il libero arbitrio e i fratelli possono avere destini molto diversi fra loro. Ma il desiderio faustiano di vitalità provoca nel corpo umano il cancro, nelle società quelle neoplasie che si chiamano -ismi e che conducono alla guerra, sola igiene del mondo. Perciò nelle quattro generazioni di Avogadro che dal 1937 a oggi si susseguono nel romanzo, mentre intorno a loro il magico Friuli agricolo e l’intero Paese cambiano, conoscendo il boom, gli anni di piombo e quelli delle pennette vodka salmone, e l’idea che i miliardari dal passato oscuro siano ottimi governanti, ogni figlio si trova a impersonare il ruolo di padre, già Edipo e ora Laio, mentre l’Italia… mah!… l’Italia… Nell’insieme, mentre scioglievo qualche mio nodo di sangue, credo di aver scritto un buon romanzo. Gotico”.

Si sente molto italiano?
“Ho ascendenze non soltanto italiane ma l’italiano è la mia lingua, e la mia lingua è la mia patria. Per il resto, alle convenienze ho sempre anteposto le convinzioni. Non amo il caffè. Non amo il calcio. E sono così dandy da essere ordinario. Come posso, pertanto, dirmi italiano? Però, sì, invece lo sono. Anche se vivo come straniero in un tempo che non è il mio, tra fatti sporchi di chiasso, in un grande clamore di niente agitato da forze che il singolo non può di fatto contrastare: luoghi comuni irrazionali – pensi soltanto al ritorno delle intolleranze religiose e dei nazionalismi, due dei peggiori mali del mondo, o alla ignorante tendenza a liquidare la scienza da un lato e dall’altro a non concepire alternative alla deriva in corso: non è su queste basi che scoppiò l’inutile macello della Grande Guerra, trionfo di politici e militari ottusi, di industriali di formidabili appetiti e insaziabile ingordigia? Il mondo ritorna verso un modello che si identifica con il peggio della prima metà del Novecento. E però, per tornare alla letteratura, da un punto di vista dei numeri dobbiamo ammettere che, perché ci siano buoni romanzi, ci deve essere anche – ed è il più, di gran lunga – lo scrivere commerciale onesto e persino quello scadente. Ma l’editoria non è un’industria e il registro a partita doppia segue misteriosi calcoli ignoti al mondo del profitto e alle previsioni a tavolino.

Sì, forse è meglio passare ad altro. Classico o romantico? E la domanda, avendo letto gli ultimi due suoi libri, non è peregrina.
“Si può amare il gotico e detestare il barocco, e persino amare senza contraddizione romanico e gotico. L’ispirazione è necessaria (romantico) ma dominarla è essenziale (classico). Certo, per dominarla bisogna prima viverla, e già questo non è da tutti. D’altra parte, chi non si dimentica mai in quel che prova, non prova mai nulla di grande”.

È possibile oggi in Italia una grande letteratura di tradizione?
“Temo di no. Tradizione sottende una struttura – sociale culturale etica e mentale – che da noi, e non soltanto da noi, si è sgretolata. Negli anni Trenta Robert McAlmon affermava che «il pubblico non è né semplice né onesto, e quando i bifolchi e i mediocri fanno proprio ciò che essi pensano sia intellettuale, ironico e arguto, è il momento di preoccuparsi se la loro pretenziosità prende il controllo dei club del libro». Mi pare che ormai non resti più nulla di cui potersi preoccupare. Molti romanzieri, specie i più giovani, guardano all’America, intesa come Stati Uniti, a quella letteratura sovrastimata grazie a quel che nell’Ottocento si chiamava “politica delle cannoniere” per la quale tutti conoscono, almeno di nome, i romanzieri inglesi di quell’epoca, ben coltivate colline, mentre nessuno ha sentito parlare della Regenta di Clarín, e pochi dei Viceré di De Roberto: due autentiche vette, ma di nazioni, politicamente parlando, di second’ordine. Gli autori americani oggi sono creati e pompati a tavolino dai colossi editoriali, secondo strategie simili a quelle del mercato dell’arte, oggi fatto da poche gallerie e case d’asta, e collezionisti che acquistano in base al prezzo – che deve essere altissimo – senza nemmeno vedere o portare a casa l’opera. Perché non collezionano, investono. Così come gli editori americani investono sul loro campionario. E funziona, ovviamente. Invece tutta la letteratura è magia. La parola e il linguaggio, come una litania o un sortilegio, danno forma a una storia. Proprio come il golem, cui si dà vita attraverso una formula magica. E il golem, infatti, è una replica in miniatura, uno specchio del mondo. Come il romanzo”.

Sentendola parlare, mi viene da pensare a Melis, che è il suo personaggio di maggior successo, e che siamo in molti ad amare, perché è un uomo pacato e attento, che non si avventa sulla realtà, ma non la sfugge, perché si permette il lusso di parlarci da una certa distanza. E perché non è solamente un commissario, intendo dire che è un personaggio a tutto tondo, che avrebbe abitato benissimo anche un qualche generico romanzo o, come controfigura, un saggio. Ecco, essendosi cimentato in diversi generi, immagino non abbia mai sentito il bisogno di darsi una qualche definizione…
“Sì, è vero, ho frequentato diverse contrade della letteratura. Con lo stesso intenso piacere con il quale ho viaggiato, spesso a piedi, nei più diversi luoghi del mondo. Deserti e montagne, sopra tutti. Come definirmi? Un insieme di atomi stanchi di stare insieme”.

Adesso tornerei volentieri a quanto dicevo all’inizio: ma io con chi ho parlato? Perché quando ci siamo sentiti al telefono per prendere un appuntamento, come si faceva in altri tempi, al suo “Pronto” le ho chiesto se potevo parlare con Adriano Bon. “Non c’è” mi ha risposto, “posso provare a farla parlare con Hans Tuzzi”. E io mi sono accontentato, ma non mi sembra che la voce dall’altra parte dell’apparecchio sia cambiata, anche se tutto sommato mi sembra sia andata bene così… come che sia, adesso posso chiederlo: perché usa uno pseudonimo?
“Uno? Come autore ho firmato con il mio nome anagrafico, e poi Hans Tuzzi e Sandor Weltmann. E se avessi potuto, tenendo Tuzzi per i saggi di bibliofilia, ne avrei usati altri: uno per i Melis, uno per i Vukcic, uno per i romanzi-romanzi. Agli editori sembra uno sperpero inutile, e li capisco, però getta luce sull’idea di letteratura che ha guidato, e lasciam pure riposare Pessoa, l’intera opera di Romain Gary. Un’idea fondata, scrive Riccardo Fedriga nella postfazione italiana alla lettera postuma nella quale Gary rivelò essere Ajar, su «una vera e propria “poetica del fare pseudo”, cioè diventare un personaggio che non si appartiene mai, inafferrabile, sempre altro sia a sé stesso sia da sé stesso». Insomma, aggiunge Fedriga, gli pseudonimi non sono che nomi di questa poetica, tentativi di uscire dall’impostura dell’esistenza reale e di vivere la propria autentica vita nella verità della letteratura. Va poi messo in conto quello stesso esclusivismo fisico e morale che ispirò a Stendhal l’amore per la mistificazione: «Je porterais un masque avec plaisir, je changerais de nom avec délices.» Del resto, come ben sapeva uno scrittore al pari di Gary suicida, solo una maschera può confessarsi”.

IL NUOVO LIBRO DI TUZZI – Hans Tuzzi (pseudonimo di Adriano Bon, nato a Milano il 28 ottobre 1952) è l’apprezzato autore – oltre che di saggi sulla storia del libro e sul suo mercato antiquario, del romanzo Vanagloria (2012), di Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore (2017) di Nessuno rivede Itaca (2020) e di Curiosissimi fatti di cronaca criminale (2023) – dei celebri gialli ambientati a Milano che hanno come protagonista il commissario, poi vicequestore, Norberto Melis: Il Maestro della Testa sfondata (2002 e 2016), Perché Yellow non correrà (2005 e 2016), Il principe dei gigli (2005 e 2012), Casta Diva (2005 e 2013), Fuorché l’onore (2005 e 2017), La morte segue i magi (2009 e 2017), L’ora incerta fra il cane e il lupo (2010 e 2017), Un posto sbagliato per morire (2006 e 2011), Un enigma del passato (2013 e 2017), La figlia più bella (2015), La belva nel labirinto (2017), La vita uccide in prosa (2018), Polvere d’agosto (2019), La notte, di là dai vetri (2019), Nella luce di un’alba più fredda (2021), Ma cos’è questo nulla? (2022). Tuzzi è anche autore della trilogia dedicata all’agente segreto Neron Vukcic, Il Trio dell’arciduca (2014), Il sesto Faraone (2016) e Al vento dell’Oceano (2017). E nel 2023 ha firmato Curiosissimi fatti di cronaca criminale.

Il suo nuovo romanzo, Colui che è nell’ombra, edito da Bollati Boringhieri, racconta quattro generazioni di una nobile famiglia nel Friuli dal 1937 a oggi. La narrazione, per bocca dell’intendente dei conti Avogadro, non si svolge lenta giorno dopo giorno, mese dopo mese, ma procede per momenti significativi, piccoli o grandi, che spiccano nel succedersi degli anni, e ha come sfondo il progressivo mutare di una regione negli anni Trenta periferica, agricola, feudale e per certi aspetti magica, con l’improvvisa accelerazione del dopoguerra, dal boom economico al benessere diffuso e alla perdita di tradizioni e riferimenti.

Su questo arazzo di fondo – nel quale Tuzzi dispiega conoscenze e memorie dirette, affascinato dalle tradizioni popolari e caustico verso il presente – si susseguono le vicende degli Avogadro, nel progressivo divenire padre di colui che era figlio, e che da padre con il proprio figlio rinnova lo scontro fra generazioni. Sullo sfondo, silenziose e sagge, le donne di famiglia reggono i fili della vita. Ma il tempo dato agli Avogadro è percorso, come una vena carsica, da una leggenda nera che ha come protagonista lo spirito inquieto di un antenato. Alle superstizioni delle campagne si aggiunge perciò l’ombra di un’anima dannata. E infine qualcuno verrà, non come ladro nella notte ma come vortice nel vento. Non è del resto, il Friuli, paese di temporali e di primule? 

L’AUTORE DELL’INTERVISTAGiovanni Nucci, poeta e autore di romanzi, saggi e racconti per ragazzi, per quindici anni ha studiato, raccontato e riscritto miti greci e romani. Tra i suoi libri più noti Ulisse. Il mare color del vino (e/o, 2004 – Salani, 2013), Roma i miti e gli eroi (Feltrinelli, 2007, Salani, 2023), Francesco (Rizzoli, 2013), La storia di tutto (Salani, 2017), E due uova molto sode (Italosvevo, 2017), La differenziazione dell’umido (Italosvevo, 2018), Achille. Il midollo del leone (Salani, 2021), Gli dèi alle sei, l’Iliade all’ora dell’aperitivo (Bompiani, 2023), Atlante delle emozioni nel mito (Il Saggiatore, 2023).

 

Fonte: www.illibraio.it


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Libri da tenere sul comodino quando non riesci a dormire: 10 consigli letterari per chi soffre di insonnia


Occhiali, orologio, tazza di tè ormai fredda e, nei casi più singolari, un flaconcino di oli essenziali alla lavanda. Il comodino è uno spazio liminale, quasi magico, che ci traghetta dal mondo del giorno a quello della notte. Tra i numerosi oggettini di ogni tipo che svettano lì sopra, naturalmente non può mancare una modesta pila di libri, titoli che abbiamo lasciato lì a prendere un po’ di polvere, nella promessa di “leggere un paio di pagine” prima di chiudere gli occhi.

I libri da comodino hanno una natura ben diversa da quelli che sfogliamo in metropolitana, sul divano o durante un viaggio. Sono i volumi a cui dedichiamo gli ultimi minuti della giornata e, proprio per questo, la loro scelta deve essere compiuta con particolare oculatezza.

La domanda sorge quindi spontanea: quali sono i libri perfetti da tenere sul comodino?

Iniziamo col dire che, senza voler mettere in discussione i gusti di nessuno, sarebbe meglio evitare quelle letture sconvolgenti, i romanzi pieni di colpi di scena che ci tengono con il fiato sospeso — il rischio è di restare svegli fino all’alba pur di scoprire come finisce la storia!

Un buon libro da comodino, invece, ha il compito di accompagnarci dolcemente verso il sonno. Sono dunque benvenuti quei libri che non urlano per attirare la nostra attenzione, dalle dimensioni contenute e dallo stile intimo e rilassato (ma mai noioso!). Si tratta spesso di letture che ci invitano alla riflessione, lasciandoci con qualche pensiero da accarezzare prima di chiudere la giornata in bellezza.

Come avrete capito, i libri da comodino sono creature piuttosto sfuggenti. Proprio per questo, per stilare la nostra lista, abbiamo selezionato dieci consigli letterari di vario genere: un saggio, un albo illustrato, un classico della letteratura, un libro di poesia, un manuale di self-help, una storia per bambini, una commedia romantica, una raccolta di racconti, un romanzo breve e, infine, un’antologia di lettere.

Scopriamo insieme quali titoli meritano di essere sul nostro comodino, pronti a farci compagnia quando il resto del mondo si spegne.

La felicità sul comodino

Tra i libri perfetti da tenere sul comodino c'è "La felicità sul comodino" di Alberto Simone (TEA)

Iniziamo la nostra lista di libri da comodino con un titolo che promette di fare molto di più che accompagnare il vostro sonno: potrebbe davvero cambiarvi la vita, partendo proprio… dal comodino! Nel suo libro La felicità sul comodino (TEA), Alberto Simone ci svela un messaggio potente: la felicità non è così lontana come siamo portati a credere. Anzi, una felicità autentica, duratura e accessibile a tutti è assolutamente alla nostra portata.

La lezione più preziosa con cui concludere la giornata? Spesso siamo proprio noi, senza accorgercene, a complicarci la vita. Ma possiamo vivere meglio, possiamo sentirci più realizzati e appagati. Imparando ad apprezzare le piccole cose, come i libri che scegliamo di leggere la sera prima di addormentarci.

Nel paese dei mostri selvaggi

Tra i libri da comodino c'è "Nel paese dei mostri selvaggi" di Maurice Sendak (Adelphi)

Ci sono libri capaci di aprire porte segrete verso mondi straordinari, dove parole e immagini si intrecciano in una perfetta armonia. Un albo illustrato è proprio uno di quei libri che non può mancare sul vostro comodino: la scelta giusta per quando vi sentite più riflessivi e desiderosi di abbandonarvi alla bellezza delle illustrazioni.

Il titolo che vogliamo suggerirvi è Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak (Adelphi, traduzione di Lisa Topi), un’opera che vanta una storia affascinante quanto il libro stesso: inizialmente, l’idea era di intitolarlo Nel paese dei cavalli selvaggi. Tuttavia, al momento di dar vita alle sue illustrazioni, l’autore si rese conto che i protagonisti che aveva in mente non avevano nulla di equino, bensì assomigliavano sorprendentemente ai membri della sua famiglia. Quei mostri, che avrebbero dovuto essere creature misteriose, finirono per incarnare zii, cugini e parenti vari che il piccolo Sendak aveva conosciuto durante le festose e caotiche riunioni familiari della sua infanzia.

Il risultato? Un libro che inizialmente spaventò i lettori molto più di quanto l’autore avesse previsto. Ma fu proprio quell’elemento di sorpresa, quel pizzico di inquietudine familiare, a conquistare definitivamente il cuore di grandi e piccini, rendendolo un’opera indimenticabile.

Le notti bianche

Copertina del romanzo "Le notti bianche" di Dostoevskij , un classico breve, perfetto da tenere sul comodino

Proseguiamo la nostra selezione di libri da comodino con un vero e proprio classico intramontabile, perfetto da gustare durante quelle notti insonni che sembrano non finire mai. Esatto, stiamo parlando del capolavoro di Dostoevskij, Le notti bianche (Garzanti, traduzione di Luigi Vittorio Nadai). Quale titolo migliore per immergersi nel fascino della notte?

Questo breve ma intenso romanzo ha il potere di trasportarci in una dimensione sospesa tra sogno e realtà, dove le chimere e le fantasticherie si mescolano alle emozioni più profonde. Il protagonista, un giovane sognatore solitario, vaga senza meta per le strade di una Pietroburgo estiva e quasi deserta, inseguendo illusioni e desideri che sembrano sfuggirgli a ogni passo. L’incontro con Nasten’ka ha il potere di accendere in lui la speranza di un amore travolgente. Ma, come spesso accade nei sogni, anche questo incontro si rivelerà effimero: Nasten’ka ama e aspetta un altro, e dopo quattro notti di febbrile eccitazione, il protagonista dovrà fare i conti con un’amara realtà. L’ultimo mattino porta con sé il disincanto e il doloroso addio, segnando il risveglio da una breve parentesi di felicità.

milk and honey

milk and honey di Rupi Kaur (TEA)

Per chi arriva a fine giornata davvero senza energie, ma non può proprio rinunciare a una parentesi letteraria, le raccolte di poesie sono la scelta ideale. milk and honey (TEA, traduzione di Alessandro Storti) è un libro che esplora il dolore e la guarigione attraverso un percorso di profonda riflessione. Le brevi e incisive poesie di Rupi Kaur, arricchite da delicate illustrazioni, ci guidano in un viaggio attraverso i periodi più amari della vita, rivelando come, anche nei momenti più difficili, la dolcezza possa essere trovata in ogni angolo.

La via dell’artista

Tra i libri da comodino, ecco un libro perfetto per sognare: "La via dell'artista" di Julia Cameron (Longanesi)

Prima di scivolare nel sonno notturno, perché non dedicarci per un attimo ai sogni che abbiamo sempre messo da parte, quei sogni che non abbiamo mai avuto il coraggio di coltivare? Una lettura ispiratrice e ricca di suggerimenti pratici potrebbe regalarci l’energia giusta per affrontare il domani con un nuovo slancio.

Tutti, almeno una volta, abbiamo sognato di dipingere, scrivere, suonare, comporre o ballare. Eppure, quanti di noi hanno abbandonato questi sogni, convinti di non avere abbastanza talento? È qui che entra in gioco La via dell’artista di Julia Cameron (Longanesi, traduzione di Martina Ghiazza), un percorso che parte dall’idea che la creatività non è un dono riservato a pochi eletti, ma una via naturale che ognuno di noi può percorrere. Attraverso un percorso di dodici settimane, ricco di esercizi semplici ma potentissimi, Cameron ci insegna come sbloccare la creatività e farci scoprire nuove potenzialità, a prescindere dalle nostre abilità o dall’idea che abbiamo di noi stessi.

Pippi Calzelunghe

Tra i libri da comodino non può mancare un testo della letteratura per l'infanzia come "Pippi Calzelunghe" di Astrid Lindgren (Salani)

C’è qualcosa di magico nel leggere libri per bambini prima di andare a dormire. È un po’ come fare un salto indietro nel tempo, a quei momenti in cui ci raggomitolavamo sotto le coperte e i nostri genitori ci leggevano una storia per farci addormentare. I libri per l’infanzia sono le vere star dei comodini: pagine che sanno calmare e farci sognare, riportandoci a quando eravamo piccoli, anche solo per una notte.

E se parliamo di libri indimenticabili, Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren (Salani, traduzione di Annuska Palme Larussa Sanavio e Donatella Ziliotto) merita un posto d’onore. Pippi è la ribelle per eccellenza, amata dai bambini di tutto il mondo e tradotta in 65 lingue. Forte, allegra, furba e indipendente, Pippi vive da sola a Villa Villacolle, senza timore di niente. Non ha bisogno di adulti che le dicano quando andare a letto o come comportarsi, perché sa che le buone maniere contano solo se si è veramente generosi. E Pippi, naturalmente, lo è. Leggere le sue avventure significa chiudere la giornata con una dose di allegria, un pizzico di follia e, come Pippi, affrontare la vita senza paura.

La verità è che non ti odio abbastanza

Copertina del libro "La verità è che non ti odio abbastanza di Felicia Kingsley (Newton Compton)

Si dice che amiamo la persona a cui dedichiamo l’ultimo pensiero della giornata. Ecco perché la notte ha quel tocco di romanticismo che vogliamo celebrare con un consiglio di lettura speciale: un libro che parla d’amore. Abbiamo scelto quindi per voi una storia frizzante, leggera e ricca di ironia, perfetta per strapparvi un sorriso e farvi chiudere la giornata con il cuore leggero. Sul vostro comodino non può mancare Felicia Kingsley, autrice dal ritmo travolgente che, con i suoi romanzi pubblicati da Newton Compton, sa come farci sognare e ridere. Dialoghi brillanti, capitoli brevi e una trama scattante vi terranno incollati alle pagine, fino a quando, quasi senza accorgervene, sarete già arrivati all’ultima parola.

La donna che scriveva racconti

Nell'elenco dei libri da comodino troviamo "La donna che scriveva racconti" di Lucia Berlin (Bollati Boringhieri)

E veniamo quindi ai libri da comodino per eccellenza. Non c’è niente di meglio per soddisfare le voglie letterarie notturne di una raccolta di racconti. Un racconto, per sua natura, è breve (alcuni più, alcuni meno) ed esaustivo. Questo significa che quasi sicuramente concluderemo la nostra sessione di lettura in tempi rapidi, uscendone – se tutto va bene – appagati e soddisfatti.

La donna che scriveva racconti di Lucia Berlin (Bollati Boringhieri, traduzione di Federica Aceto) è una garanzia da tenere sempre a portata di mano, un libro che non deluderà lettori e lettrici appassionati del genere, e non. In questa raccolta, l‘autrice crea personaggi indimenticabili, utilizzando uno stile semplice e chiaro, ma imprevedibile come una melodia jazz. Le sue esperienze personali – dalla povertà ai lavori come domestica, infermiera e madre single – si trasformano in materiale prezioso per una narrazione intensa e personale, ricca di dolore, umorismo e bellezza.

Non mentirmi

"Non mentirmi" di Philippe Besson tra i 10 consigli letterari da tenere sul comodino

Non troppo distanti dalle raccolte di racconti, troviamo i romanzi brevi. Vi avvertiamo: il titolo che stiamo per consigliarvi ha un effetto collaterale non indifferente: vi farà piangere tutte le vostre lacrime. Ma, in fondo, cosa c’è di meglio di un bel pianto liberatorio per conciliare il sonno? Non mentirmi di Philippe Besson (Guanda, traduzione di Leila Beauté) narra la relazione tra Philippe e Thomas, un ragazzo tormentato e incapace di accettare la propria omosessualità in un’epoca in cui è ancora un tabù. Questo romanzo, che esplora un amore appassionato e impossibile, si snoda attraverso centosessanta pagine che scorrono rapidamente e lasciano un’impronta indelebile nel cuore di chi legge.

Lettere contro la guerra

Copertina del libro "Lettere contro la guerra" di Tiziano Terzani (Chiarelettere)

Concludiamo la nostra lista di consigli con una lettura perfetta per chi cerca un libro capace di accompagnare verso la notte con riflessioni profonde e significative. Lettere contro la guerra di Tiziano Terzani (uscito per Longanesi e riproposto da Chiarelettere con l’introduzione di Tomaso Montanari) è una raccolta scritta durante i mesi successivi all’11 settembre, subito riconosciuta come una delle riflessioni più incisive sul conflitto e le sue conseguenze. Rileggerla oggi ci fa comprendere come la sua forza vada ben oltre quel singolo evento: queste lettere parlano di tutte le guerre, opponendosi con fermezza alla violenza e all’intolleranza. Una meditazione preziosa contro l’indifferenza, l’ipocrisia e le semplificazioni.

Fonte: www.illibraio.it


“Il tempo dei padri” (finalmente anche per la biologia)


Esiste in Sudamerica un gruppo di piccole scimmie dalla biologia piuttosto singolare. I Callitricidi (tamarini, uistitì e scimmie affini) sono di dimensioni ridotte, deliziosi a vedersi e vivono per lo più in piccoli gruppi nei quali il ruolo dei padri nell’accudimento della prole è fondamentale. Le madri, che si accoppiano in maniera piuttosto libera, allattano i cuccioli, ma quasi tutto il resto è sulle spalle dei maschi del gruppo. I padri sono talmente coinvolti nella cura della prole che il segno premonitore più evidente del fatto che una femmina è incinta è dato dall’aumento di peso dei maschi, che sembrano in qualche modo “prepararsi” al duro lavoro che li attenderà una volta nati i piccoli.

E c’è di più: i neonati, spesso frutto di parti gemellari, sono in un certo senso figli di tutti. Le placente delle femmine di queste specie, infatti, hanno una particolare vascolarizzazione che permette il passaggio di cellule embrionali da un feto all’altro, di modo che le scimmiette che nasceranno risultano essere delle chimere, ovvero individui formati da un mosaico di cellule diverse, provenienti da spermatozoi di maschi differenti. Ogni nuovo nato è quindi letteralmente figlio di più padri, e ogni maschio è padre di tutti e si dà da fare in accordo con gli altri di conseguenza. La società che ne deriva somiglia decisamente più alla pacifica Città del Sole di Tommaso Campanella che alla violenta “natura rossa di zanne e artigli” del poeta romantico Alfred Tennyson. Chiedete a un tamarino se sia giusto o meno che i maschi si prendano cura della prole e lui vi guarderà stupito: «Perché? C’è un’alternativa?».

D’altra parte in India esistono gli entelli, dei Cercopitecidi che si comportano in modo molto diverso. Riuniti in bande strutturate attorno a un maschio dominante, subiscono regolarmente attacchi da parte di bande rivali. Quando un nuovo maschio prende possesso di un gruppo, la sua prima azione è quella di uccidere i figli del maschio precedente, lavoro raccapricciante che svolge con la determinazione e la cura di un Terminator per assicurarsi che il DNA della generazione successiva sia il suo e non quello di qualcun altro. Qui Tennyson vince su Campanella sei a zero. Inutile dire che la cura della prole negli entelli è tutta sulle spalle delle femmine.

il tempo dei padri

Per chi pensa che la biologia di una specie abbia un ruolo importante nel determinare il tipo di società, qui abbiamo due esempi apparentemente molto chiari: i tamarini sono indotti dal loro particolare sistema di riproduzione a dare vita a una società pacifica e collaborativa, nella quale i maschi sono amorevolmente accudenti; gli entelli, invece, sono una sorta di emblema del peggiore patriarcato, coi maschi-padroni che in maniera violenta impongono la loro legge, e più che essere amorevoli coi cuccioli, di fatto rappresentano la loro principale causa di morte.

Ma finché si parla di entelli e tamarini, il dibattito viene facilmente derubricato alla voce “curiosità naturalistiche”. Il gioco si fa invece interessante quando si parla di noi, Homo sapiens.

Per molto tempo il modello che ha guidato le ricerche sull’accudimento dei neonati nella nostra specie si avvicinava più agli entelli che ai tamarini, in parte perché i numeri sembravano orientare la ricerca verso quella direzione (solo il 5% dei mammiferi presenta qualche grado di cure paterne della prole; e tra le società umane le cose non vanno diversamente), in parte perché lo stesso Charles Darwin, nell’Origine dell’uomo (1871), aveva di fatto avallato questa visione: “L’uomo [maschio] invece rivaleggia con i suoi simili; gli piace competere, e questo lo porta ad essere ambizioso, il che costituisce il primo passo verso l’egoismo. Tali qualità sembrano essere un suo naturale sfortunato diritto di nascita“. È vero che il padre dell’evoluzione scrive “sfortunato”, quasi rammaricandosi di questo stato di cose, ma è anche vero che scrive “naturale”, come a dire che se negli umani la prole viene affidata alle femmine e non ai maschi significa che le cose stanno così, che ci volete fare? Magari noi non uccidiamo i figli degli altri, siamo più civili, ma è nell’ordine delle cose che i maschi si dedichino alla competizione mentre le femmine si dedichino a cambiare i pannolini.

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E questo ha costituito una giustificazione per molto tempo. Ma poi non è stato più così. Cosa dobbiamo pensare, infatti, del profondo e radicale mutamento di costumi degli ultimi decenni? È dettato esclusivamente dalla cultura? Perché è un fatto che i giovani padri di oggi si comportano coi figli in maniera molto diversa da come si comportavano i padri di una o due generazioni fa.

In Occidente c’è stato un cambiamento evidente, che è sotto gli occhi di tutti, e oggi è sempre più frequente che la cura dei neonati sia condivisa in maniera via via più paritaria tra i due genitori; sono sempre di più i padri che prendono un congedo di paternità, ad esempio, lasciando che siano le madri a “competere” sul posto di lavoro. E oltre tutto, secondo tutti gli standard questi nuovi padri se la cavano benissimo. È dunque in atto un’evoluzione puramente culturale, in qualche modo “contro natura”? La domanda è tutt’altro che oziosa, perché a seconda di come rispondiamo ne possono derivare politiche sociali differenti, che andranno a influenzare le vite delle giovani coppie nella loro quotidianità, per non parlare di quanto può accadere alle coppie omogenitoriali che adottano un figlio. I risvolti squisitamente politici di queste domande sono più che evidenti.

Ebbene, per molto tempo la biologia si era un po’ adagiata sui sanguinosi versi di Tennyson e aveva preso per buone le conclusioni di Darwin, senza darsi la pena di indagare oltre. Oggi, tuttavia, i conti non tornano più e forse è giunto il momento di rivedere il paradigma. È proprio questo che ha fatto Sarah Blaffer Hrdy nel suo Il tempo dei padri (Bollati Boringhieri, traduzione di Gianna Cernuschi), un libro che ha le carte in regola per essere definito rivoluzionario.

Certo, anche la cultura gioca un ruolo importante, ma non basta a spiegare il comportamento di così tanti (sempre di più) giovani uomini; ci deve essere qualcosa di più profondo in azione, qualcosa di legato alla nostra natura, alla nostra biologia, se è vero – come è vero – che i padri che oggi accudiscono i loro figli e che stanno a lungo in contatto con loro vanno persino incontro a mutamenti fisiologici, del tutto paragonabili a quelli delle madri.

Nuovi dati, derivati da ricerche svolte su numerose coppie, eterosessuali e omosessuali, mostrano infatti che non solo il comportamento dei padri accudenti nei confronti dei figli è indistinguibile da quello delle madri, ma che persino il cambiamento dei livelli ormonali nel loro sangue, che era ben noto per le neomamme, risulta indistinguibile tra i due sessi quando gli uomini si fanno effettivamente carico dei neonati.

Semplicemente, nessuno prima si era dato la pena di misurare gli ormoni negli uomini, tanto eravamo sicuri che i ruoli fossero “naturalmente” divisi tra i due genitori, coi maschi a competere e le femmine a prendersi cura. Ora sappiamo che chi si prende cura dei figli va incontro a cambiamenti profondi anche della propria fisiologia, ed è indifferente che sia maschio o femmina.

Non c’è proprio nulla di “contro natura” qui: mettete un papà a contatto prolungato con suo figlio e il suo comportamento cambierà di conseguenza. Si farà più tamarino e meno entello, per così dire, e forse, alla lunga, la società che ne deriverà sarà un po’ più simile alla Città del Sole di Campanella che alla “natura rossa di zanne e artigli” di Tennyson.

L’AUTORE – Michele Luzzatto è il direttore editoriale di Bollati Boringhieri.

Fonte: www.illibraio.it


“La penitenza” di Eliza Clark, un romanzo che gioca con la verità (e mette in discussione i fan del true crime)


Alec Z. Carelli è un giornalista e scrittore di cronaca nera, che con quattro libri non riesce ad ottenere il successo che desidera. Sta cercando il riscatto, quando si imbatte in un caso di un omicidio di una adolescente a opera di tre compagne di scuola.

Il posto dove avviene il fatto, Crown-On-Sea, è una cittadina inglese sul mare dello Yorkshire del Nord, in cui sembrano concentrarsi troppi misteri, misfatti e adolescenti emotivamente complicati. Quando legge la notizia, Carelli è attratto dal contorno: il luogo, il modo, la comunità che viene coinvolta suo malgrado.

La penitenza di Eliza Clark

Il racconto dell’omicidio di Joan Margaret Wilson, avvenuto il 23 giugno 2016, apre il romanzo di Eliza Clark La penitenza (Bollati Boringhieri, traduzione italiana di Francesca Manfredi) e il narratore della storia, Alec Z. Carelli, ci mette a parte non solo dell’identità della vittima ma anche delle colpevoli: Violet Hubbard, Angelica Stirling-Stewart e Dorothy “Dolly” Hart. È Joan stessa che riesce a dare i nomi delle sue carnefici, prima di morire; dunque, non c’è il minimo dubbio di colpevolezza.

Arrestate, loro stesse confessano, vengono processate e mandate in istituti di correzione minorile o in carcere e nella ricostruzione della vicenda danno dettagli incoerenti, si accusano l’un l’altra e restituiscono una verità dei fatti parziale.

“Le ragazze cominciarono a frequentarsi a seguito di una serie di circostanze. Trascorsero gran parte dell’anno precedente all’omicidio rinchiudendosi sempre di più in una specie di mondo inventato – quasi un culto, alimentato dalle ossessioni e dalle ire di ciascuna ragazza. Joan Wilson divenne il loro bersaglio. Sia per cose che aveva fatto, sia per cose che le ragazze si erano solo immaginate.
Era tutto per finta. Finché poi non lo fu più”.

Il concetto stesso della ricostruzione plausibile è al centro della storia, è uno dei temi su cui si arrovella questo romanzo, perché riannodare i fili della storia, quando le voci sono molteplici e diverse, può non avere una sola soluzione possibile. Ri-costruire significa anche dare un nuovo volto alle cose: nella narrazione che ripercorre la vicenda, Carelli annota e illumina gli aspetti che più di altri sembrano interessanti, con l’intento di fornire una versione “definitiva” alla vicenda.

Il crimine in sé è privo di qualunque tipo di indagine investigativa: sappiamo chi, dove – in un bungalow sul lungomare di proprietà del padre di Angelica – come – bruciando viva la vittima – e non siamo certi del perché. Il movente è lasciato sfocato da un lato: aleggerà per tutto l’arco del racconto. Carelli, infatti, dettaglia fin da subito la cronologia dei fatti, nomina ogni persona che è stata a contatto con la vittima la notte in cui è stata uccisa, descrive dove e come è stato commesso il reato. Ciò che risulta interessante, invece, è il motivo, completamente personale, che lo spinge a interessarsi all’accaduto, a ricostruirlo nei minimi particolari, a colorare le persone coinvolte delineando il contesto, le relazioni tra loro e dedicando gran parte del suo racconto a ciò che l’omicidio non rivela: la meschinità adolescenziale, la difficoltà a trovare la propria identità e a trascorrere le ore in un liceo inglese come tanti altri, in cui si lotta quotidianamente per la sopravvivenza emotiva.

La ricostruzione che interessa a Carelli, infatti, è quella emotiva: l’indagine della cronaca, lui che di cronaca si è cibato da sempre, in fondo non è utile in questo caso perché a voler sciorinare solo i fatti, nudi e crudi, sembra che sfugga qualcosa nel profondo delle intenzioni.

Il motivo del racconto e il movente dell’omicidio fanno parte dell’implicito della ricostruzione: chiunque sia appassionato di true crime o di investigazione sa che il perché è più forte di qualsiasi altra leva di interesse. Vogliamo scoprire l’assassino, ma ci interessa di più capire le motivazioni del delitto e tanto più il crimine è efferato o incomprensibile quanto più la ricerca del perché diventa una questione primaria.

Carelli non si limita a ricostruire gli eventi, ma si trasferisce per un certo periodo a Crown-On-Sea nel 2019. Carelli viene a scoprire di questo caso tramite siti internet dedicati al true crime e in un periodo in cui questo tipo di racconto iniziava la sua potente ascesa.

Mentre cerca un caso di cui scrivere e decide che quello di Joni Wilson faccia al caso suo, tanto da passare del tempo nella comunità di Crown-On-Sea, per intervistare le famiglie, gli amici e la cittadina tutta; il suo intento è dare un quadro complesso e a tutto tondo della vicenda, convinto del fatto che l’omicidio di Joan Wilson è il risultato di una serie concatenata di eventi. Ciò che gli interessa è la ricostruzione “emotiva” della vicenda, quell’insieme di situazioni, pulsioni e sentimenti senza i quali non ci sarebbero state le protagoniste, le vittime, le carnefici, i personaggi secondari. Dal racconto di Carelli sembra che l’omicidio della giovane sia stato il risultato inevitabile di una serie concatenata di eventi, soprattutto sentimentali e profondi che, concatenandosi nell’arco di anni, hanno prodotto una tragedia.

Joan Wilson è stata torturata e bruciata viva da tre coetanee che conosceva e con cui aveva intrattenuto relazioni più o meno conflittuali fin dalla sua infanzia e per farci comprendere perché ciascuna delle loro storie è rilevante, Carelli dedica a ognuna un ritratto letterario e drammatico della loro breve vita, attraverso le interviste ai genitori e ai conoscenti e a una comunicazione epistolare con due delle accusate – Violet e Angelica.

Abbiamo la sensazione costante di stare dentro una ricostruzione fedele e plausibile, in cui ogni efferatezza trova posto. Siamo certi di comprendere le condizioni in cui si sono verificati gli eventi: ci ritroviamo in ognuna di quelle famiglie e pensiamo di capirne le contraddizioni e gli errori, addirittura rintracciamo il momento preciso in cui un genitore ha detto o fatto la cosa sbagliata o il compagno di classe ha sussurrato la frase peggiore possibile tra un’ora e l’altra di lezione.

Ci dimentichiamo di un dettaglio importantissimo per la quasi totalità della lettura: è qui che il romanzo si compie, si realizza la metanarrazione: Eliza Clark agisce per mano di un giornalista che, mettendo in dubbio la verità, ne eleva gli spigoli e le ombre e ci fa credere che ogni cosa sia la verità per poi lasciarci con il dubbio più insoluto: cos’è davvero la verità? Dove risiede? Chi la può raccontare?

Clark usa l’espediente del true crime, della nostra abitudine a questo genere diventato così comune e popolare per raggirarci e per dirci che la verità, nel momento stesso in cui diventa racconto, non è più sicura, non ha più valenza morale. Svanisce quasi e si trasforma e la perdiamo, così come accade a Alec Z. Carelli che è abituato alla cronaca ma si lascia andare al racconto: sceglie la strada della narrazione per rendere la cronaca più accattivante, più umana, adatta all’immedesimazione.

Siamo incerti su chi ha fatto cosa. Siamo incerti sul come e sul perché, che sono i due moventi principali della lettura. Siamo noi come lettori/spettatori/ascoltatori di true crime che siamo in discussione. Lo sono i podcaster che si cibano di questo tipo di eventi e ne fanno parodia o humor nero; in questo modo Clark esce addirittura dal racconto dei fatti e si porta al livello della narrazione stessa per mettere in discussione anche l’utilità ultima del racconto della vita vera.

La penitenza è dunque un romanzo che gioca con la verità, passandole attraverso e sfilacciandola. Seziona i fatti, usando anche registri differenti – post sui social, estratti di podcast, lettere, prosa – ma confonde le intenzioni di raccontarli, e questo gioco di cuciture tra ciò che è vero e ciò che non lo è si mescola anche nella lettura.

Il racconto è vivo, vibra sezione dopo sezione e tiene attaccati alle pagine: anche se sappiamo tutto rimaniamo semplicemente invischiati nel racconto, nella profilazione delle assassine e della vittima, nelle confessioni degli adulti, nelle testimonianze della sorella di Dolly e della sua ex fidanzata. Seguiamo i nodi fino alla fine, fino all’ultima intervista che mette in dubbio la verità e la svela, lasciandoci, infine, dubbi sul nostro ruolo, non soltanto su quello di Carelli, e su tutta l’attenzione riservata alla storia fino a lì.

Fonte: www.illibraio.it