“L’estate che ho ucciso mio nonno” di Giulia Lombezzi: una madre, una figlia e un drago da sconfiggere


Quanto possiamo dire di conoscere i nostri genitori? Di loro abbiamo costruito, giorno dopo giorno, un’immagine dettagliata e mutevole, fatta di modi di dire, abitudini strampalate, pregi e difetti, piccole e grandi incompatibilità, confidenze e vecchi aneddoti. 

A renderci evidente quanto siano incomplete e sfuggenti queste immagini, però, basta poco: la vecchia fotografia di un viso giovane e diverso, oppure l’incontro con un amico di lunga data, mai conosciuto prima – ed ecco che si spalanca davanti ai nostri occhi la vita di una persona quasi estranea, ma che forse è sempre stata lì, assopita, sotto la superficie. 

Alice, la protagonista di L’estate che ho ucciso mio nonno (Bollati Boringhieri) di Giulia Lombezzi (scrittrice, drammaturga e sceneggiatrice) conosce sua madre Marta soltanto nel modo in cui lei si è mostrata ai suoi occhi nel corso dei suoi sedici anni: discreta, solare, una presenza costante e rassicurante, appassionata di piccoli reperti recuperati sulla spiaggia o in discarica, con cui ama creare composizioni insolite e colorate, all’apparenza il suo unico segno di eccentricità.

L'estate che ho ucciso mio nonno di Giulia Lombezzi

Per anni lei e Alice hanno vissuto da sole, dopo il divorzio dal marito e la partenza della figlia maggiore, Federica, alla ricerca di cause perse per cui combattere. Il loro è un legame quieto e pudico (sono pochissime le occasioni per abbracciarsi o scambiarsi affetto) ma ugualmente viscerale. Non una semplice coabitazione, ma un’alleanza naturale e segreta, rinnovata giorno dopo giorno.

Tutto si infrange con l’arrivo in casa di Andrea, il padre di Marta. Alice assiste sbigottita alla trasformazione della sua abitazione (e di sua madre) con l’obiettivo di accogliere al meglio il nonno, fiaccato da un intervento all’anca, rimasto vedovo e senza più capacità di vivere in autonomia: “Nonna era troppo occupata a morire per lasciargli istruzioni”. Un tempo carismatico, altero e piuttosto minaccioso, Andrea è ora un vecchio pieno di acciacchi, rabbioso, insofferente e depresso, pronto a esercitare i rimasugli del suo antico potere per piegare la figlia alle sue necessità.

Alice non riconosce più sua madre in quella donna nervosa, insicura e pronta a sacrificarsi per la salute del padre.

Mentre nella vita famigliare si susseguono uno dietro l’altro badanti più o meno competenti, la scuola termina, e con l’arrivo dell’estate Alice viene risucchiata in una spirale di inerzia, noia e afflizione che ha come epicentro la sua casa, ormai completamente asservita al nuovo ospite.

“La casa è diversa. È in apnea. Come se dalla camera di Nonno – o da Nonno stesso? – promanasse una densità giallastra, un pulviscolo di dolore stizzito che si deposita sui mobili. Accendo incensi. Spruzzo Malizia profumo d’intesa, ma lo spessore dell’aria non cambia”.

La quotidianità di Alice si basa su un mix frastornante di video TikTok, fantasie sessuali, desideri di morte, fumetti e domande esistenziali. A supportarla, da un lato, l’amicizia con Cane e Angiu, tanto spensierata e liberatoria quanto profonda e fondamentale; a disorientarla, dall’altro, la sensazione di aver perso irrimediabilmente il sostegno di sua madre e l’incapacità di capire il suo comportamento ambiguo.

Alice, però, non rimane inerme e spaventata: tutt’altro. Il suo punto di vista, ben tratteggiato da Giulia Lombezzi (già autrice, per Giulio Perrone editore, di La sostanza instabile, finalista al Premio Calvino 2020) è ricco di sarcasmo e spietato come sa esserlo solo una ragazza di sedici anni. I suoi giudizi sono simili a sentenze, ma la sua mente è aperta e sensibile, sempre pronta a rivalutare la situazione alla luce degli ultimi avvenimenti.

 

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Mentre la madre si trincera sempre di più dietro alla sua angoscia inspiegabile, Alice elabora strategie per recuperare la libertà e ristabilire lo status quo, determinata a combattere come un cavaliere impavido contro chiunque si metta sul suo cammino. Non sa ancora quanto la lotta sarà complicata e dolorosa, e che a contrastarla sarà proprio la persona che cerca di salvare.

Più Marta è assente, pallida ed emaciata, più Alice cerca di riaffermare la sua presenza, di tornare visibile agli occhi della madre, cercando nel cibo un senso di sazietà e nel passato le risposte alle proprie domande.

Il suo cammino verso la verità la fa inabissare nell’infanzia e nell’adolescenza di sua mamma, (passata tra la campagna e una piccola cittadina della Liguria), mostrandogliene i lati più oscuri e nascosti.

Intrufolarsi nel passato di Marta è, per Alice, come entrare – non invitata – nella vita di una sconosciuta. Come Marty McFly, Alice vorrebbe tornare indietro nel tempo per correggere il passato, e, con esso, anche il presente di sua madre.

“Io cambio tutto. Torno indietro e cambio tutto.
Lo ammazzo, il tempo. Letteralmente.
A questo dovrebbe servire una DeLorean”.

Nel tentativo di scoprire chi è davvero Marta, la figlia perde sé stessa, trovando invece una rabbia corrosiva, un odio oscuro e pericoloso, pronto a travolgere il carceriere di sua madre, quel temibile Drago che l’ha tenuta rinchiusa in una torre lontana per tutta l’adolescenza, e che ora sembra tornato nella sua vita per ricominciare da capo. Alice vorrebbe soltanto diventare un principe per poterlo annientare.

È possibile spezzare il ciclo di violenza che si ripete, generazione dopo generazione? O il dolore e l’ingiustizia sono destinati a marchiare anche la vita di Alice?

A differenza delle fiabe, Giulia Lombezzi non termina la sua storia con un perfetto lieto fine: la sua prosa smaschera le imperfezioni e le contraddizioni irrisolvibili nei rapporti famigliari, divisi tra ricerca di amore e necessità di indipendenza, bisogno di protezione e desiderio di libertà. In questo caotico turbinio di emozioni, però, si può trovare qualcuno a cui aggrapparsi per non essere spazzati via.

Al termine del loro percorso di ricerca, Alice e Marta si incontrano a metà strada, in un pomeriggio qualunque di fine estate. Trovandosi a vicenda, ritrovano anche loro stesse: finalmente, si vedono. E si riconoscono.

Fonte: www.illibraio.it


“Quel confine sottile”: il debutto nel noir della sceneggiatrice Silvia Napolitano


Capita, ogni tanto, che noi sceneggiatori passiamo a scrivere un romanzo. Capita, forse più di frequente, che passiamo alla regia di un film. Ovviamente, una ragione c’è, ed è la stessa per tutti (almeno credo): noi sceneggiatori non abbiamo il controllo del risultato finale, ed è giusto che sia così.

Il lavoro dello sceneggiatore è un segmento del grande lavoro collettivo che porta alla realizzazione di un film o di una serie. È un mestiere di grande artigianato, che a me (non sempre, ma spesso) piace molto. È la dimostrazione di come, con una buona tecnica narrativa e delle regole ormai collaudate, si possano costruire storie e fare arrivare emozioni: la storia del cinema e della televisione lo dimostrano.

Certo, c’è sempre una gran differenza tra la scrittura per il cinema e quella per la televisione: la scrittura per il cinema è, giustamente, al servizio del regista. La scrittura per la televisione è, giustamente, al servizio del pubblico e della sua dimensione industriale. Dico giustamente perché così dovrebbe essere. Ma spesso le intenzioni non corrispondono alla realtà del risultato finale: a volte, il risultato finale è l’esito di mille compromessi, e capita anche che il pubblico nemmeno lo apprezzi.

Insomma, quando scriviamo per la televisione o per il cinema, noi sceneggiatori sappiamo di essere un tassello del grande affresco della scrittura per immagini, a cui diamo un contributo molto importante, certo, ma non fondamentale.

silvia napolitano quel confine sottile

Ecco, è in questo piccolo aggettivo, fondamentale, che c’è tutta la differenza tra uno sceneggiatore e uno scrittore.

Insomma, uno sceneggiatore deve fare i conti con mille altre cose di cui non è responsabile: la messa in scena, prima di tutto, e poi gli attori (quanto conta il modo in cui un attore dice la battuta che tu hai scritto?), e poi il montaggio, e infine l’editing finale. Uno scrittore, invece, è sempre responsabile di quello che scrive. Dall’inizio alla fine. Non ci sono intermediari.

E allora?

Allora è naturale che uno sceneggiatore abbia una gran voglia di paternità (o di maternità…): sempre che abbia un’identità abbastanza forte e che non abbia voglia di delegare ad altri il risultato finale del suo lavoro.

Ecco, è quello che è successo a me.

Dopo molti anni (forse troppi!) di scrittura ‘al servizio di’, mi è venuta, appunto, una gran voglia di mettermi al servizio di me stessa: o, meglio, delle cose che avevo voglia di raccontare, dei personaggi che avevo voglia di conoscere, al di là dell’attore che lo avrebbe interpretato.

Il risultato di questi desideri è un romanzo.

Ci sono state molte cose inaspettate e del tutto impreviste in questo passaggio dalla sceneggiatura alla scrittura di un libro: la prima, e forse la più importante, è che tutti gli strumenti di lavoro che ho usato per tanti anni, si sono all’improvviso dissolti (pur rivelandosi, alla fine, utilissimi). Per tanti anni, ho applicato regole nella costruzione di una struttura, e ho lavorato a lungo sui personaggi prima di scriverli. Tra l’altro insegno sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia, e insegno ai ragazzi proprio questo: in una sceneggiatura il lavoro, anche molto lungo, sulla struttura di un film o di una serie televisiva, e quello sui personaggi, sono fondamentali. Ed è vero, ci credo fino in fondo.

 

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Ma il romanzo mi ha fatto scoprire la libertà della scrittura: sicuramente questo è stato possibile dopo molti anni di esperienza di strutture e personaggi, eppure non avrei mai pensato che questa libertà potesse essere così totale. Ho scritto questo libro a flusso, senza scaletta (nonostante fosse un giallo), e senza aver deciso nulla dei personaggi: sono stati loro che sono arrivati sulla pagina, e mi hanno guidato a scoprire le loro vite, i loro lati oscuri, i loro traumi. Io li ho solo seguiti. A volte hanno fatto cose che non mi aspettavo, e mi hanno trascinato nelle loro esistenze senza nessun pudore.

E naturalmente hanno aperto anche le mie porte sconosciute, mi hanno fatto scoprire territori che non conoscevo. Certo, non è stato facile resistere alla tentazione di seguire un personaggio magari minore, ma che mi incuriosiva molto: ho cercato il più possibile di mantenere la compattezza della storia e la logica dei fili che legavano tra loro i personaggi. Su di loro non ho mai dato giudizi, come del resto faccio nella vita: insomma, li ho amati molto, tutti. E la sensazione che potranno arrivare a chi legge così come li ho scritti è una gran bella sensazione.

L’AUTRICE – Silvia Napolitano è nata a Napoli, ha vissuto un po’ a Milano, molto a Bari, e ora vive a Roma. Scrive per il cinema e la televisione, e ha scritto film, tv-movie, e serie (tra le ultime: I bastardi di Pizzofalcone tratta dai romanzi di Maurizio De Giovanni e Mina Settembre, diretta da Tiziana Aristarco). Ha fatto parte della giuria del Premio Solinas per vent’anni, e insegna Sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ora è al debutto nella narrativa con Quel confine sottile, che inaugura Black Note, la nuova serie di narrativa noir, italiana e straniera, di Bollati Boringhieri.

Veniamo alla trama del suo giallo: Fabrizio Mieli, psicoanalista, ha in cura Zac, un ragazzino schizofrenico di quattordici anni, bello come un elfo e che ha per amici solo bambini morti. Un giorno Zac gli racconta di aver trovato nel fiume il corpo senza testa di un’adolescente: un cadavere vero, questa volta, non uno dei suoi fantasmi. È quello di Juliette, tredici anni, francese, scomparsa da un campeggio appena fuori Roma qualche giorno prima. Nessun indizio, nessun testimone.

Bruno Ligabue, commissario solitario e con un macigno nel cuore, inizia a indagare, e presto scopre che il proprietario di un bar frequentato da giovanissimi offre da bere, e forse altro, a ragazzine che non sanno dir di no. È una pista, la prima. Ma con Ligabue non è d’accordo Agostina Picariello, la PM che si occupa del caso, donna brusca e decisamente poco conciliante. Il conflitto tra i due è immediato, istintivo: Agostina, infatti, è convinta che sia stato Zac, il ragazzino che l’ha trovata, a uccidere Juliette, mentre il commissario dissente profondamente.

Due piste, due caratteri, due visioni del mondo opposte. Ma Ligabue e Picariello sono assai più simili di quello che pensano: man mano che l’indagine va avanti emergono gli errori, le paure, le mancanze di entrambi. La scoperta dell’assassino passerà per vie misteriose e oscure ma, in questo romanzo corale in cui le vite dei personaggi si intrecciano, insieme alla soluzione del caso anche le verità più profonde di ognuno di loro affioreranno come era affiorato il cadavere di Juliette dal fiume: quella del commissario Bruno Ligabue, una vita solcata dal dolore più profondo che si possa immaginare, e tenuta in piedi grazie alla tenacia e alla passione per il lavoro; e poi quella di Fabrizio, psicoanalista irrisolto; di Raimondo, medico legale scorbutico ma pronto all’amicizia; di Brenda, donna dal carattere forte che stanerà Ligabue dal suo isolamento; di Aurora, luminosa mamma di Zac; dei due coniugi vicini di casa del commissario, anziani e premurosi. E ancora, la verità di ragazzine fragili e insicure, e di un cane psicotico che si fa carico della guarigione propria e di Bruno.

Fonte: www.illibraio.it


L’unico modo che conosco di non essere più figlia – di Eleonora Daniel


Una premessa: io non esisto come madre, esisto solo come figlia – e il mio universo di figlia è peraltro mutilato dal lutto, ma questa è un’altra storia.

Non so dire se sarò madre. Mi piace pensare di essere ancora giovane anche solo per pormi la questione; ignoro il fatto che alla mia età non sarebbe così strano avere figli (ma: potersi permettere un tetto, la crisi climatica, l’egoistica spinta alla solitudine, trovare una stabilità economica e relazionale, costruire me prima di dedicarmi a un’altra persona, eccetera).

Non solo. Mi rendo conto, ora che ci rifletto, di aver passato la mia età adulta a sentirmi bambina (figlia). Suppongo sia una sensazione condivisa da buona parte delle mie coetanee e dei miei coetanei – noi Peter Pan forzati: non vittime di un revival adolescenziale alla soglia dei quarant’anni, ma costretti a far convivere responsabilità e infantilismi nelle nostre case condivise, a conoscere l’adultità solo come gioco precario. Siamo undicenni eterni che scalpitano per essere ammessi al tavolo dei grandi.

eleonora daniel la polvere che respiri era una casa

Quanto a me, sono stata e tuttora sono più piccola rispetto a buona parte dei miei amici, dei miei compagni di studio, dei colleghi che ho avuto in quasi tutti i lavori che ho svolto, e mi sono abituata al fatto che la mia età percepita rosicchi almeno tre anni a quella anagrafica. Sembri più piccola! (ma ancora, ma perché), rispondo: l’Eleonora del futuro sarà contenta di sentirlo. Penso: arriverà un momento in cui finalmente mi sarà concesso di crescere. Forse il momento è questo. Assumersi la responsabilità (paternità) delle proprie parole è un buon punto di partenza per diventare grandi. Credo.

Comunque sia, La polvere che respiri era una casa non ha la pretesa di essere una storia sulla genitorialità. Non perché io parta dall’avvilente assunto che si possa scrivere solo ed esclusivamente di ciò che si conosce, ma perché lo direi piuttosto un libro sulla capacità di essere generativi, nella misura in cui qualsiasi costruzione lo è: un edificio, una ricetta, i lego, una fiaba, un amore.

La polvere che respiri era una casa è una storia sul concepire (!), persino il vuoto, persino i silenzi, e, per assurdo, sull’accogliere l’inconcepibilità di determinati gesti. In tutto questo, avere un figlio è solo una metafora, e dunque una scusa.

È con questa scusa che posso continuare a parlarne. A un certo punto del romanzo, uno dei due protagonisti dice all’altra che nelle sue prime fasi di vita un libro è un po’ come un bambino, perché ancora in formazione.

Sposterei più avanti la similitudine: un libro è un po’ come un bambino perché per un certo periodo resta in formazione (gestazione, cova), e poi non più. Poi: si allontana, entra nelle case degli altri, crea un mondo a parte estraneo a chi lo ha creato.

 

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Ne scrivo con la stessa confusione con cui mia madre tende a spiegare il lavoro che faccio alle sue amiche,[1] costretta a rassegnarmi al fatto che racconterà (il libro, ma anche mia madre) una storia diversa dalla mia.

Forse lo scarto tra i legami è questo: accettare il fatto che la stessa storia in una bocca diversa diventerà un’altra storia. La polvere che respiri era una casa smetterà di raccontare quello che volevo dire nel momento in cui il primo lettore lo aprirà – in parte è già stato così. Dirà, spero, tanto altro, e non vedo l’ora di scoprirlo. Almeno fino a oggi, è l’unico modo che conosco di non essere più figlia.

[1] Ops. Ciao mamma!

L’AUTRICE – Nata a Milano nel 1995, Eleonora Daniel vive a Roma, dove si è specializzata in editoria. Attualmente è caporedattrice e editor di Accento edizioni. Dopo che alcuni suoi racconti e articoli sono apparsi su diverse riviste, ora arriva in libreria per Bollati Boringhieri il suo primo libro, La polvere che respiri era una casa, definito un “romanzo che parla la lingua universale dei sentimenti”.

Un debutto che narra la storia di una relazione come tante: due ragazzi che si innamorano, si trasferiscono, si amano di un amore umano, domestico e imperfetto, sognano, si contraddicono, progettano una casa e un futuro. Un giorno, accanto a una tavolata di bambini al ristorante, avvertono una sensazione nuova: vogliono un figlio. Ma le cose non vanno come vorrebbero e le loro speranze si rivelano più difficili da affrontare del previsto..

Eleonora Daniel propone una narrazione che spazia tra diversi stili e voci narranti, e sviscera i due punti di vista di una coppia, decostruendo ogni banalità e facile romanticismo.

Fonte: www.illibraio.it


“Black Note”: la nuova serie di Bollati Boringhieri per chi ama gialli e crime


Nel 2025 in arrivo un nuovo progetto in casa Bollati Boringhieri, che già da tempo pubblica gialli – e crime e noir – tra i suoi libri di narrativa, e che dal nuovo anno raccoglierà queste uscite in un contenitore più omogeneo, per renderli immediatamente riconoscibili ai cultori del genere: parliamo di Black Note, “la nota nera, la nota scura: non dunque la nota blu, quella malinconica del blues o del jazz, ma quella dark che permea i testi che abbiamo selezionato per questa nuova serie di Varianti”, si spiega nella nota della casa editrice torinese

Saranno libri, quattro titoli nel 2025, “con una speciale attenzione alla cura della scrittura, alla profondità dello sguardo, all’originalità dell’intreccio, crimini e misteri da svelare in un caleidoscopio di storie e personaggi appassionanti”.

quel confine sottile silvia napolitano black note

A febbraio Bollati Boringhieri inaugura Black Note con un esordio: Quel confine sottile di Silvia Napolitano, il primo romanzo della sceneggiatrice di celebri serie tv, tra le quali figurano I Bastardi di Pizzofalcone e Mina Settembre. Il protagonista di questo giallo è Zac, un ragazzino schizofrenico di quattordici anni i cui unici amici sono bambini morti immaginari che vede solo lui. Un giorno però Zac un cadavere lo trova davvero. Un corpo decapitato nel fiume, quello della tredicenne francese Juliette. In questo romanzo corale le vite dei personaggi si intrecciano come fili di un unico tessuto tenuti insieme da un delitto da risolvere. C’è lo psicoanalista di Zac, Fabrizio Mieli. C’è un commissario solitario, Bruno Ligabue. Una PM dal carattere impossibile, Agostina Picariello. Esistenze particolari e diverse che però condividono mondi di dolore che si sovrappongono al dramma di Juliette…

Ad aprile la serie Black Note si arricchirà di un altro esordio, Cos’è successo a Ruthy Ramirez? di Claire Jiménez, romanzo vincitore del PEN/Faulkner Award 2024 “per l’efficacia con cui ha reso il mondo femminile e rappresentato la rabbia delle donne e il loro coraggio”. Cos’è successo a Ruthy Ramirez? è il “vivido ritratto di una famiglia di origine portoricana residente a Staten Island, che esplora i legami familiari tra le donne e i cicli di violenza generazionale e razzista di cui esse sono vittime. Alla base delle loro difficoltà quotidiane e della loro vita in frantumi c’è un trauma irrisolto: Ruthy è scomparsa a tredici anni dopo l’allenamento di atletica, e da dodici anni la sua famiglia non riesce a darsi pace. Una sera Jessica, la sorella maggiore, è convinta di aver riconosciuto Ruthy in un reality show alla tv. Sarà davvero lei? Un gomitolo di storie femminili in cui regnano il risentimento e la tenerezza, la difficoltà, la paura ma anche l’amore”.

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A giugno la collezione noir accoglierà un nuovo libro dell’autrice bestseller Shari Lapena, Qui tutti mentono, sulla manipolazione all’interno dei legami famigliari e sui misteri che vi si celano. Cosa succede se non si può più credere alle persone che si amano? Il romanzo di Lapena “mette in scena un’indagine complicata in cui tutti gli abitanti di una tranquilla comunità rivelano un volto oscuro e sembrano mentire per coprire i propri segreti”. Un graduale accumulo di colpi di scena fino alla rivelazione finale.

Infine, a ottobre, Black Note ospiterà Prova a sfidarmi di Megan Abbott (già autrice di Giri di danza, Bollati Boringhieri 2024) un romanzo sul cheerleading e sugli aspetti più deteriori della competitività: le sedicenni Addy Hanlon e Beth Cassidy, amiche da sempre, sono cheerleader sin da bambine e ora fanno parte della squadra del loro liceo. Quando la nuova allenatrice della squadra Colette French arriva nella loro scuola trasforma però le ragazze in guerriere e rivali. L’apparente tranquillità che regnava alla Sutton Grove High School viene sconvolta da bugie, omicidi, suicidi, ossessioni e giochi di potere. Da questo libro è stata tratta l’omonima serie Netflix.

Fonte: www.illibraio.it


I libri di Massimo Recalcati: psicanalisi della società contemporanea


Rinomato psicanalista lacaniano, saggista, direttore della Scuola di specializzazione in psicoterapia IRPA, nonché professore all’Università degli Studi di Pavia e di Verona, Massimo Recalcati, classe 1959, ha concentrato i suoi studi su alcuni filoni specifici che, nel corso degli anni, ha avuto modo di approfondire nella sua vasta produzione saggistica.

Ecco quindi un percorso dedicato alle macroaree tematiche di cui si è occupato dagli anni Novanta in poi, a cominciare dalle sue prime pubblicazioni fino ai titoli più recenti che sono arrivati in libreria…

Psicopatologia ed esponenti della psicanalisi

Le prime opere di Massimo Recalcati ruotano soprattutto intorno alla psicopatologia: dai disturbi alimentari, alle dipendenze patologiche, dal panico alle depressioni e alle psicosi latenti. E a testimoniarlo sono testi quali L’ultima cena: anoressia e bulimia (Bruno Mondadori), Clinica del vuoto (FrancoAngeli) e Anoressia, bulimia e obesità (Bollati Boringhieri), quest’ultimo scritto a quattro mani con Uberto Zuccardi Merli.

Parallelamente, Recalcati si è dedicato a più riprese alla storia della psicanalisi, con saggi su alcune delle sue principali figure, come Sigmund Freud (1856-1939) e Jacques Lacan (1901-1981), occupandosi in particolare dell’esegesi del pensiero di quest’ultimo, di cui ha raccontato lo sviluppo nei volumi Il vuoto e il resto (CUEM), L’universale e il singolare (Marcos y Marcos), Jacques Lacan, un insegnamento sul sapere dell’inconscio (Bruno Mondadori, con Antonio Di Ciaccia), Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione (Raffaello Cortina Editore) e, più di recente, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto (Raffaello Cortina Editore) e Jacques Lacan (Feltrinelli).

Copertina del libro Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, struttura e soggetto di Massimo Recalcati

Tipico del metodo lacaniano (ma anche di quello freudiano) è il ricorso costante al mito e al simbolo, un tratto fatto proprio anche da Recalcati, che si avvale di continui richiami al cinema, alla letteratura, e a tutte quelle figure che possono essere viste come espressione e rappresentazione di un’epoca e di una società.

Massimo Recalcati e le figure familiari

Nel corso degli anni, in particolare dopo la pubblicazione di Cosa resta del padre? (Raffaello Cortina Editore), Massimo Recalcati si è poi dedicato allo studio della figura del padre e della paternità nell’epoca contemporanea, che vede caratterizzata dallo smembramento della famiglia tradizionale e dallo smarrimento del soggetto – privo di una guida, privo di una Legge e in balia del Desiderio.

Attraverso i già citati Freud e Lacan, nonché alcune esponenti della letteratura contemporanea (fra cui Philip Roth e Cormac McCarthy) e del cinema (si veda Clint Eastwood), l’autore delinea così i tratti di una paternità indebolita, ma comunque vitale, priva di ogni aura teologica e fondata sul valore etico della testimonianza singolare.

Copertina del libro Il complesso di Telemaco di Massimo Recalcati

La sua ricerca sul padre e, di conseguenza, sul rapporto padre-figlio, ha condotto Recalcati a proporre l’idea di un complesso di Telemaco come rovescio del complesso di Edipo, formulata compiutamente proprio nel saggio Il complesso di Telemaco (Feltrinelli).

Se il complesso di Edipo era un concetto elaborato da Freud e raccolto da Carl Gustav Jung (1875-1961), che prendendo spunto dal mito di Edipo si riferisce all’idea che il bambino maturi attraverso un’identificazione e rivalità con il genitore del proprio sesso, collegata al desiderio nei confronti del genitore del sesso opposto, Recalcati propone l’idea che oggi il rapporto tra padri e figli sia cambiato.

Riprendendo ricerche già compiute da Lacan, suggerisce infatti che questo legame possa essere spiegato piuttosto con la figura di Telemaco, il figlio di Ulisse che attende il ritorno del padre: la figura paterna è scomparsa, è assente come l’eroe omerico, ma allo stesso tempo “nuovi segnali, sempre più insistenti, giungono dalla società civile, dal mondo della politica e della cultura, a rilanciare una inedita e pressante domanda di padre”.

Copertina del libro L'uomo senza inconscio

Odisseo, però, non era solo padre, ma anche re: ciò che i figli attendono dunque non è solo il ritorno della figura genitoriale maschile, ma anche quello dell’autorità e della legge. Il complesso di Telemaco, pertanto, secondo Massimo Recalcati è proprio di una società capitalista in cui l’autorità paterna e la legge si sono dissolte, in cui viene meno il processo dell’ereditarietà tra padri e figli, e in cui a questi ultimi manca una figura che sia esempio e testimonianza di come si possa vivere con slancio e vitalità.

La contemporaneità sarebbe dunque caratterizzata, secondo l’autore, da una spinta compulsiva al godimento solitario (narcisistico e cinico), che esclude lo scambio simbolico con l’Altro. Un’idea approfondita già nel saggio L’uomo senza inconscio (Raffaello Cortina Editore), per spiegare le forme più diffuse di disagio nella società odierna: anoressie, bulimie, obesità, tossicomanie, depressioni, attacchi di panico e somatizzazioni.

Copertina del libro Le mani della madre di Massimo Recalcati

Successivamente, Recalcati ha rivolto lo sguardo anche alla figura della madre in un saggio intitolato appunto Le mani della madre (Feltrinelli), in cui ha cercato di superarne le rappresentazioni più canoniche raccontando i diversi volti della maternità, con le sue luci e le sue ombre attraverso esempi culturali e clinici.

Non esiste, sostiene al suo interno l’autore, il cosiddetto istinto materno: la madre non è la genitrice del figlio; e il padre non è il suo salvatore. La generazione non esclude per di più fantasmi di morte e di appropriazione, cannibalismo e narcisismo: perché l’amore materno non è senza ambivalenza.

In tal senso l’assenza della madre è importante quanto la sua presenza, il suo desiderio non può mai esaurire quello della donna e la sua cura resiste all’incuria assoluta del nostro tempo: la sua eredità, del resto, non è quella della Legge, ma quella del sentimento della vita. Il suo dono è quello del respiro, e il suo volto è il primo volto del mondo.

Copertina del libro Patria senza padri

Ma anche la società nel suo insieme e nella sua dimensione politica si presta a essere analizzata con gli strumenti della psicanalisi. È quello che fa Recalcati nel saggio Patria senza padri (minimum fax), un libro-intervista in cui propone una lettura della vita politica e collettiva in Italia attraverso le categorie su cui basa da sempre il suo lavoro: il desiderio e la Legge, il rapporto con l’Altro, il narcisismo, la dinamica del conflitto…

La crisi dei partiti, la sfiducia verso le istituzioni e l’ascesa di nuovi populismi, una precarietà opprimente, il malessere diffuso, le dimissioni di un pontefice e l’attardarsi al potere di una classe dirigente incapace di crearsi degli eredi: questi sono i fenomeni che hanno creato nell’Italia degli anni Dieci una situazione di instabilità profonda, a partire dalla quale Recalcati cerca di stabilire da dove possano riprendere un dibattito e un’attività pubblica psicologicamente sani, responsabili e coraggiosi.

Copertina del libro Il segreto del figlio di Massimo Recalcati

Qualche anno dopo, con Il segreto del figlio (Feltrinelli), l’autore completa poi un’ideale trilogia dedicata alla figura del padre, della madre e del figlio: “Nel tempo in cui tramonta la Legge che punisce e castiga inesorabilmente, il compito primo dei genitori – scrive Recalcati – è quello di avere fede nel segreto incomprensibile del figlio.”

Lo splendore di un figlio consiste infatti nel suo segreto, che si sottrae alla retorica dominante dell’empatia e del dialogo. Un figlio è un’esistenza unica, distinta, irriducibile a quella dei suoi genitori.

E, contro ogni autoritarismo e contro una pedagogia falsamente libertaria, Recalcati afferma il diritto del figlio a custodire il segreto della sua vita e del suo desiderio, proponendo un confronto tra due figure mitiche di figlio – quella dell’Edipo di Sofocle (497-406 a.C.) e quella del figlio ritrovato della parabola lucana –, che ci permette di osservare il suo ruolo da una nuova prospettiva.

Le figure bibliche secondo Massimo Recalcati

A partire dal 2019, Recalcati si è poi concentrato su alcuni episodi cruciali della Bibbia, con l’intento di rintracciare l’eredità più profonda del pensiero psicoanalitico e di indagare il rapporto tra le figure presenti nell’Antico e nel Nuovo Testamento e i paradigmi dei nostri giorni.

Ad aprire questo percorso è La notte del Getsemani (Einaudi), quella che Gesù trascorre nell’orto degli ulivi poco fuori Gerusalemme, a conclusione dell’Ultima Cena. Il bacio di Giuda, le lacrime di Pietro, la fuga dei discepoli, sudore e sangue, l’abbandono del padre, la preghiera: la notte del Getsemani, sostiene Recalcati, è la notte dell’uomo.

Ed è, soprattutto, lo scandalo rimproverato a Gesù: aver trascinato Dio verso l’uomo. Motivo per cui in primo piano non può che esserci l’esperienza dell’abbandono assoluto, della caduta, della prossimità irreversibile della morte e della preghiera.

Copertina del libro La notte del Getsemani di Massimo Recalcati

Seguono Il gesto di Caino (Einaudi), nel quale l’autore riflette sul fatto che – nella narrazione biblica – l’amore per il prossimo venga dopo l’esperienza originaria dell’odio fratricida, e Il grido di Giobbe (Einaudi), personaggio che d’un tratto si ritrova “nudo e rasato“, ricoperto di piaghe, e che cade così nella cenere.

Nel trovarsi esposto alla violenza insensata della propria sofferenza, Giobbe – che nella lingua ebraica significa “Dov’è il padre?” – rivolge a Dio una preghiera sotto forma di grido: “Perché a me? Perché l’ingiustizia di tutto questo dolore?“.

Certamente, sottolinea Recalcati, esso “non può essere ricondotto all’ordine del senso perché nessuna teologia, come nessuna altra forma di sapere, è in grado di spiegarne l’eccesso“. Il grido di Giobbe accade quindi quando le parole sono costrette al silenzio, spezzate dal trauma del male. E non tanto è indice di rassegnazione, quanto piuttosto di lotta e di resistenza.

Copertina del libro Il grido di Giobbe

La riflessione di Recalcati si sviluppa poi in due volumi sulle radici bibliche della psicanalisi: La Legge della parola e La legge del desiderio, pubblicati entrambi da Einaudi. Nel primo, l’autore si impegna a dimostrare che non solo non c’è contrapposizione tra il logos biblico e la psicanalisi, ma che quell’antico logos ne costituisce una delle sue radici più ancestrali.

Nel secondo, invece, l’obiettivo è sfidare i luoghi comuni e gli stereotipi della lettura psicoanalitica del cristianesimo per raccontare come la testimonianza di Gesù sia innanzitutto testimonianza della vita indistruttibile del desiderio.

Un’’eredità ripresa ancora una volta dalla psicanalisi di Freud e Lacan, per i quali la Legge, attraverso il desiderio, serve la vita e non la morte. Non si tratta, in altri termini, di sottomettere la vita alla Legge, ma di vedere nella Legge – quella dell’amore e della grazia – una forza al servizio della vita: solo così la Legge non incuterà più il timore della punizione severa, liberandosi della morte per sostenere il desiderio.

Lo sguardo al mondo contemporaneo

Parallelamente, Massimo Recalcati non ha mai smesso di osservare il presente in maniera più trasversale, occupandosi di argomenti puntuali e dalla forte risonanza contemporanea attingendo a fonti ora laiche e ora religiose, ora psicanalitiche e ora di più ampio respiro, com’è accaduto con I tabù del mondo (Einaudi) e con Contro il sacrificio (Raffaello Cortina Editore) prima, e con Le nuove melanconie (Raffaello Cortina Editore), Esiste il rapporto sessuale? (Raffaello Cortina Editore) e La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia (Feltrinelli) poi.

A riscuotere un certo successo, anche tra un pubblico di non addetti ai lavori, è stato fra l’altro Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore (Feltrinelli), che in sette brevi capitoli scandaglia degli interrogativi annosi e universali sul sentimento più antico del mondo, offrendo a lettori e lettrici i testi del programma televisivo Lessico amoroso.

Da non dimenticare, sempre nell’ambito della divulgazione, anche A libro aperto (Feltrinelli), in cui Recalcati parla dei dieci libri che ha amato di più, evidenziando fino a che punto le opere letterarie siano incontri d’amore in grado di far risuonare il nostro enigma più profondo, e Il lapsus della lettura (Castelvecchi), in cui una serie di meditazioni ricompongono l’autobiografia intellettuale di uno psicanalista che interroga ancora e ancora il mistero della parola.

Copertina del libro Il lapsus della lettura

Quanto alla dimensione più sociale della produzione di Massimo Recalcati, è da segnalare La tentazione del muro (Feltrinelli), in cui l’autore usa gli strumenti teorici del proprio mestiere per soffermarsi sugli snodi fondamentali e i paradossi che caratterizzano la vita psichica degli individui, dei gruppi umani e delle istituzioni quando bisogna scegliere se vivere nel chiuso della propria identità o iscrivere la propria vita in una relazione con l’Altro.

Senza dimenticare A pugni chiusi (Feltrinelli), un ritratto psicanalitico della vita collettiva e dei problemi del mondo degli ultimi vent’anni, e il recentissimo Il vuoto e il fuoco. Per una clinica psicoanalitica delle organizzazioni (Feltrinelli). Quest’ultimo, più nello specifico, ci offre una sintesi del lavoro di Recalcati nelle organizzazioni, spiegandoci in che modo possono durare nel tempo mantenendo vivo lo slancio “misterioso e commovente”, come direbbe Pier Paolo Pasolini (1922-1975), del loro inizio, evitando di ammalarsi e di disperdere la loro potenza: un ripensamento radicale del soggetto collettivo, che ancora una volta non può prescindere dall’acuta lente della psicanalisi.

Copertina di "De Odio" di Recalcati tra i libri ultime uscite marzo 2025

A proposito di uscite recenti, a marzo 2025 Castelvecchi ha proposto De odio, saggio dedicato a una passione propriamente umana, l’odio appunto. In tempo di guerre la sua sconcertante attualità non può non farci interrogare sulle sue più profonde radici. Se l’aggressività appare come una reazione impulsiva e disordinata a una frustrazione o a una fascinazione, per Recalcati l’odio si configura come una passione lucida che vorrebbe annientare la vita dell’Altro. In questo modo il saggista invita a guardare il lato più in ombra del desiderio: non la sua dimensione dialettica che mostra il desiderio umano come desiderio di essere desiderati dal desiderio dell’Altro, ma come spinta brutale a liberarci dall’Altro, a sottrarci al vincolo del Due che l’esistenza dell’Altro impone.

Fonte: www.illibraio.it


100 uscite per la collana Nuovi Saggi Bollati Boringhieri (NSBB)


Quando, nel 2009, la Bollati Boringhieri venne acquisita dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol, la casa editrice aveva già una lunga storia alle spalle, una “potenza di fuoco” di circa cento titoli all’anno e parecchie (davvero tante) collane attive. Il nuovo direttore editoriale e amministratore delegato, Renzo Guidieri, avviò subito un piano di semplificazione e ottimizzazione, ma non rinunciò per questo a lanciare una nuova collana per segnare il cambio di passo. Così, nel 2010, hanno visto la luce i Nuovi Saggi Bollati Boringhieri, NSBB per gli amici.

Quindici anni dopo – con la pubblicazione de Gli altri figli di Dio di Catherine Nixey – ci troviamo a festeggiare l’uscita del centesimo titolo di quella che è diventata la collana “ammiraglia” della casa editrice del cielo stellato.

In origine era una collana cartonata, dedicata sostanzialmente alle tematiche scientifiche proprie del marchio, caratterizzata da una copertina bianca, molto visibile sui banchi delle librerie, con un titolo colorato di grandi dimensioni e un’immagine scontornata e incisiva. La grafica era stata affidata a Bosio Associati, e ha dato bella prova di sé per lungo tempo sui banchi delle novità. Molti dei titoli che sono stati pubblicati in questa collana hanno lasciato il segno, tanto che oltre un terzo della produzione si è guadagnata una seconda vita in formato tascabile. Dimostrazione di ottima salute.

Tra gli autori dei Nuovi Saggi – tutti stranieri – figura John Medina, che col suo Il cervello – Istruzioni per l’uso ha aperto la serie. Ma è sempre in questa collana che è stato lanciato in Italia il fisico britannico Jim Al-Khalili, con La fisica del diavolo, un libro che è ormai giunto alla quindicesima edizione ed è considerato un piccolo fenomeno di culto per gli appassionati del settore.

Scorrendo l’elenco dei titoli della collana ci imbattiamo in Guy Deutscher e il suo La lingua colora il mondo, David DiSalvo con Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi fare il contrario), Jonathan Gottschall con L’istinto di narrare, Mark Miodownik con La sostanza delle cose, Beau Lotto con Percezioni, John Bargh con A tua insaputa, Catherine Nixey con Nel nome della croce e, più recentemente, Harald Haarmann con Culture dimenticate. Sono tutti autori ormai attestati in libreria, che hanno trovato in questa collana il loro trampolino di lancio in Italia, e che nei loro lavori trattano di fisica, neuroscienze, linguistica, psicologia e storia, veicolando informazioni nuove e affascinanti grazie a un linguaggio diretto e immediatamente accessibile. È l’idea della scienza raccontata con garbo.

Copertine NSBB

Tra gli autori più recenti, poi, troviamo Paul Sen, Michael Brooks, Sarah Chaney, Gaia Vince, James Fox, Roma Agrawal, Helen Czerski e Richard Wingate: un parterre di eccellenze che rende la collana uno scrigno di scoperte.

Dal 2024 la NSBB ha cambiato “faccia”: ora è in brossura e la sua grafica è stata completamente rielaborata da cdm associati, con un gesto originale e un’eleganza tutta particolare. Due cerchi sovrapposti, uno colorato, l’altro nero e contenente un’immagine, si presentano al pubblico in ogni nuovo titolo, a significare la sostanziale serialità della proposta editoriale, il suo progetto unitario. Il sottotitolo del libro viene spostato in alto, le bandelle ripiegate riprendono il colore del cerchio in secondo piano.

Nuovi Saggi Bollati Boringhieri

Con l’ultimo libro della serie, il numero 100, l’idea del progetto appare più che evidente. Chi ha amato (e sono in molti) i libri e gli autori pubblicati qui negli ultimi quindici anni sa al primo sguardo che si può fidare del prossimo, nel quale troverà la stessa cura che già conosce, la stessa meraviglia per temi inaspettati, declinata su nuovi autori e nuovi argomenti, tutti da scoprire e apprezzare.

 

Fonte: www.illibraio.it