Il 2 giugno 1946 è una data che ha cambiato la storia del nostro paese, eppure ci sono ben pochi saggi divulgativi che hanno analizzato questa svolta epocale. Nel 2021 ricorrerà il 75° anniversario del referendum istituzionale che sancì la fine della monarchia e la nascita della Repubblica italiana.Le immagini delle lunghe file ai seggi […]
Il 2 giugno 1946 è una data che ha cambiato la storia del nostro paese, eppure ci sono ben pochi saggi divulgativi che hanno analizzato questa svolta epocale.
Nel 2021 ricorrerà il 75° anniversario del referendum istituzionale che sancì la fine della monarchia e la nascita della Repubblica italiana.
Le immagini delle lunghe file ai seggi e delle donne che esercitano per la prima volta il diritto di voto sono entrate a pieno titolo nella memoria collettiva della nazione. Se sulla transizione dal fascismo alla democrazia finora è stato scritto molto, meno approfondito è lo studio dello strumento elettorale che ha determinato la nuova forma dello Stato. La scelta referendaria, tutt’altro che scontata e naturale, fu al centro di scontri e interessi politici interni e internazionali, di cui si è progressivamente persa memoria. Sul ritorno alla democrazia dell’Italia si giocarono, intrecciate tra loro, molte partite decisive destinate a influenzare il secondo dopoguerra sia nel nostro paese che nella stessa Europa.
Lo strumento del referendum popolare, all’epoca chiamato «plebiscito» in ricordo del Risorgimento, fu scelto dopo un lungo percorso che si concluse con la decisione del governo guidato da De Gasperi, di sottoporre direttamente al popolo sovrano il quesito referendario. Questo testo getta luce sui vari schieramenti in campo: conservatori, cattolici, liberali, socialisti e comunisti. Dall’analisi emerge quanto il referendum popolare abbia consentito di rafforzare la centralità della Democrazia Cristiana nel sistema politico italiano, destinata a resistere fino al 1992.
Per prepararci a questo storico anniversario e riflettere sulla portata epocale di quell’evento pubblichiamo qui un estratto dal saggio 2 giugno 1946, in libreria dal 6 maggio
© 2021 Bollati Boringhieri
Con il Dll 7 gennaio 1946, n. 1, il governo De Gasperi approvò le norme per le consultazioni elettorali amministrative. Le prime elezioni libere dopo il ventennio fascista furono distribuite in due turni: uno primaverile, nelle cinque domeniche tra il 10 marzo e il 7 aprile, e il secondo in autunno, nei mesi di ottobre e novembre.
Nella prima tornata si votò in 5722 comuni, di cui 3158 nel Nord (circa l’80% del totale), 804 nel Centro (poco più dell’84%) e 1255 nel Sud (quasi il 74%). Gli elettori chiamati al voto furono 19 802 580, con un’affluenza dell’82,3% (uomini 83,0% e donne 81,7%). In autunno, votarono i rimanenti 1383 comuni. Per comuni con meno di 30 000 abitanti fu scelto il sistema maggioritario con voto limitato ai 4/5 dei consiglieri da eleggere, già in vigore prima del fascismo, mentre per quelli con popolazione superiore o che fossero capoluogo di provincia, per la trasformazione dei voti in seggi venne decisa l’adozione della formula proporzionale con una ripartizione dei seggi secondo il metodo del comun divisore (d’Hondt).
Il 10 marzo 1946 fu dunque una data importante nella storia d’Italia non soltanto perché vide il ritorno alle urne degli italiani nei comuni chiamati al voto per eleggere i consigli comunali, ma soprattutto in ragione di un evento ancor più unico: per la prima volta dall’Unità parteciparono alla consultazione elettorale amministrativa anche le donne.
«La democrazia è entrata nei comuni sorridendo» titolò enfaticamente l’«Avanti!» il 12 marzo 1946. Fu anche il primo voto per tanti giovani che non avevano potuto esercitare i loro diritti politici durante il ventennio fascista.
«Quando votai per la prima volta alle elezioni amministrative dell’aprile 1946 avevo quasi 37 anni», ha raccontato Norberto Bobbio. «L’atto di gettare liberamente una scheda nell’urna, senza sguardi indiscreti […] apparve quella prima volta una grande conquista civile, che ci rendeva finalmente cittadini adulti. Rappresentava non solo per noi ma anche per il nostro paese l’inizio di una nuova storia».In verità l’estensione del voto alle donne era stata sancita l’anno precedente, durante il secondo governo Bonomi, con il Dll 1° febbraio 1945, n. 23, auspice un accordo tra Togliatti e De Gasperi. Il decreto era stato una diretta conseguenza della «prima costituzione provvisoria» che all’articolo 1 aveva stabilito che l’Assemblea costituente avrebbe dovuto essere eletta «a suffragio universale e diretto». Il diritto di voto fu concesso alle donne che avessero compiuto i 21 anni d’età alla data del 31 dicembre 1944, ovvero raggiunto la maggiore età dell’epoca. Le uniche escluse erano le prostitute che esercitavano al di fuori delle case chiuse.
Con le poche, scarne parole contenute nel testo approvato nella seduta del Consiglio dei ministri del 30 gennaio 1945 si sanciva così «il raggiungimento dell’obiettivo di una lotta secolare delle donne europee e americane, per il quale, anche se in misura minore rispetto ad altri paesi, si erano battute anche le emancipazioniste italiane».
L’estensione del suffragio non suscitò, a onor del vero, particolari dibattiti pubblici né prima e né dopo l’approvazione del decreto. Sulla stampa, anche quella di partito, infatti, l’argomento non venne trattato come la portata epocale della decisione avrebbe meritato.Fece eccezione «L’Unità» che dedicò alla questione un editoriale dal titolo Vittoria della democrazia.
Nell’Italia occupata, «Il Resto del Carlino» uscì il 31 gennaio 1945 con un titolo al vetriolo: Mentre si muore di fame ci si preoccupa del voto alle donne, in perfetta sintonia con una vignetta che apparve su «Fogli d’ordini delle Brigate Nere», di fatto in quei mesi l’organo del Partito fascista repubblicano, raffigurante due donne, magre e lacere, con in mano una borsa della spesa desolatamente vuota, in cui la prima chiedeva «Cosa c’è di nuovo al mercato?» e l’altra le rispondeva «Il diritto di voto alle donne».«Non si può negare che questo diritto sia stato riconosciuto più per l’opera dei partiti», scrisse Maria Comandini Calogero, responsabile del movimento femminile del Partito d’Azione, «che da esso contano di trarre grandi vantaggi elettorali, che non da una vera agitazione popolare che abbia obbligato il governo a questa concessione».
I socialisti, che come gli azionisti non erano presenti con loro rappresentanti nel secondo governo Bonomi, accolsero favorevolmente il decreto sul voto alle donne. Nel consiglio nazionale del Psiup del settembre 1944 era stato approvato un ordine del giorno in cui si denunciava «l’illogica e ingiusta ripartizione dei diritti sia politici sia sociali verificatasi fin’ora nei riguardi delle donne nell’attuale ordinamento sociale. La donna italiana deve essere chiamata a dare il suo contributo alla vita politica e amministrativa del paese, mediante il diritto di voto».La relativa facilità con cui Bonomi accettò l’estensione del suffragio, derivò anche dal fatto oggettivo che gli uomini dei partiti non potevano disconoscere i titoli acquisiti dalle donne nel periodo della guerra e nella Resistenza.
Il decreto n. 23, però, conteneva una grave mancanza. Nel testo, infatti, non c’era menzione dell’elettorato passivo, ponendo quindi le donne italiane nell’anomala posizione di poter votare ma non di poter essere candidate e quindi elette.
Già, a ridosso dell’emanazione del decreto, l’11 febbraio 1945, l’Unione donne italiane (Udi), che nell’autunno 1944 aveva promosso, insieme al Centro italiano femminile (Cif), il «Comitato pro-voto», chiese al presidente Bonomi di porvi prontamente rimedio. Ci volle, invece, più di un anno per sanare la questione, a testimonianza che questa mancanza potesse essere interpretata anche come «una spia del fatto che il principio dell’eleggibilità delle donne suscitava perplessità ed ostacoli», sebbene il governo avesse cercato di rimediare all’errore sia con le nomine alla Consulta nazionale sia con la candidabilità alle elezioni amministrative.