In “56 giorni” Francesca Segal, scrittrice e giornalista britannica, firma un atto d’amore e di riconoscenza, che lei stessa chiama "inno alla compassione e alla generosità" del servizio sanitario che ha assistito non solo le sue gemelle, ma anche lei, accompagnandola nei primi passi incerti di chi deve imparare a essere madre, e poi restituendola pronta alla sua nuova vita – L’approfondimento
“Non ho conosciuto le mie figlie il giorno della loro nascita”.
È una gravidanza compiaciuta e serena, quella di Francesca, che insieme alle due bimbe dentro di lei vive l’allegria di una gang al femminile tra palestra, lunghi pomeriggi in biblioteca, notti tranquille. Le gemelle sono piccole, ma c’è ancora tanto tempo, e insieme si cresce, nella consapevolezza che tutto andrà bene.
Invece una mattina di tempo non ce n’è più, un’emorragia improvvisa la porta in ospedale, e lì l’orologio si ferma: le bambine nascono alla trentesima settimana, e per loro c’è l’incubatrice, tanti tubi attaccati dovunque, macchine che suonano in continuazione.
56 giorni di Francesca Segal (Bollati Boringhieri, traduzione di Manuela Faimali) è un diario sospeso, tra paure e commozione, del periodo trascorso nel reparto terapia intensiva neonatale dalle due bambine, e da Francesca con loro. Mentre i piccoli prematuri sono costantemente monitorati e accuditi, per i genitori non c’è un ruolo, non c’è un senso, non hanno diritti da rivendicare, possono solo aspettare e guardare.
“Non le riconosco. Sono ultraterrene nella loro stranezza, e oceaniche nella loro bellezza. Sono creature a metà nella penombra, e in un istante il mio cuore si spezza e divento una mamma a metà, per due”.
Nulla è come doveva essere, e i primi momenti di vita delle bambine sono asettici, distanti, privi di quell’intimità emozionata che la maternità vive. Francesca è una mamma impotente, che ha il compito di tirare il latte, quando anche il suo corpo capisce che è troppo presto, non riconosce di essere già un corpo di madre, e fa fatica.
“Non sono in grado di occuparmi delle mie figlie”: la disperazione di ore passate a guardare dietro un vetro, un’alienazione nello scorticarsi le mani con il disinfettante perché solo così, con mille precauzioni, è possibile avvicinarsi, toccarle sotto l’occhio vigile di qualcun altro. Non sono figlie a termine, quelle di Francesca, e non si sente a termine nemmeno lei, impreparata, inadeguata al compito.
Ogni sera bisogna tornare a casa, senza di loro, un dolore come un’amputazione, uno smarrimento che fa perdere di vista tutto, la quotidianità, il marito, la famiglia. Sono tutti bloccati in un’attesa che alterna pericolo a sollievo, in balia di quei valori che possono cambiare in un attimo. Moltiplicati per due.
Sono gli atti di gentilezza inaspettati che consentono di andare avanti. Sono le microscopiche cuffiette ricamate, regali di sconosciuti, gesti semplici che accarezzano l’anima. Sono le ricette della mamma di Francesca, che trova così il modo per prendersi cura di sua figlia, anche lei madre spettatrice, anche lei mossa da una smania di accudimento. Ognuno fa quello che può, cercando di credere nel potere degli sforzi compiuti per amore.
Ci sono gli infermieri, i dottori, i tirocinanti del National Health Service, efficienti e scrupolosi, ma soprattutto comprensivi, generosi, incondizionatamente buoni. E poi ci sono le altre mamme, ognuna con la sua paura che non diventa chiusura ma condivisione. Lì, tutte insieme, capaci di momenti di saggezza e conforto, senza cattiverie né rivalità, scoprono anche la forza dell’ironia. Compagne.
“Ci vuole un villaggio per crescere un bambino. Quel villaggio è andato perso nella nostra cultura. Nel momento del bisogno, le donne in sala mungitura ne hanno costruito uno”.
Allontanate dalla corrente di una maternità normale, le donne si ritrovano unite in uno spazio in cui ricreano una loro quotidianità, strana, irreale, fatta di sorellanza.
Solo così possono guardare avanti, immaginando possibile riprendere le fila delle loro vite: una cena fuori con il marito, un colloquio nell’attesa che si possa ricominciare un progetto, matrimoni da promettersi tra i figli, la calma di fantasticare un ritorno a casa tutti insieme.
Francesca Segal nel suo libro va oltre la semplice cronaca dei suoi 56 giorni con le piccole Celeste e Raffaella: firma un atto d’amore e di riconoscenza, che lei stessa chiama “inno alla compassione e alla generosità” del servizio sanitario che ha assistito non solo le sue gemelle, ma anche lei, accompagnandola nei primi passi incerti di chi deve imparare a essere madre, e poi restituendola pronta alla sua nuova vita.
Fonte: www.illibraio.it