Perché la letteratura preferisce rappresentare il Male?

di Andrea Tarabbia | 03.03.2021

"Per quello che mi è dato di sapere e narrare, i casi in cui, nella letteratura degli ultimi due secoli, si è tentato di rappresentare il Bene sono pochissimi; e uno solo è il caso in cui un racconto incentrato sul Bene è risultato un capolavoro...". Su ilLibraio.it la riflessione di Andrea Tarabbia sul Male in letteratura, in occasione della riedizione de "Il demone a Beslan"


Per quello che mi è dato di sapere e narrare, i casi in cui, nella letteratura degli ultimi due secoli, si è tentato di rappresentare il Bene sono pochissimi; e uno solo è il caso in cui un racconto incentrato sul Bene è risultato un capolavoro: era il 1869, e Fëdor Dostoevskij si era prefisso di scrivere il ritratto di un “uomo assolutamente buono”; quest’uomo, un po’ angelo e un po’ derelitto, è un ingenuo, un Cristo minore incapace di fare il bene davvero.

Eppure è a suo modo portatore di una particolare luce in grado di gettare un seme benefico nelle vite di donne perdute e mercanti cinici e violenti. Il principe Myškin, protagonista di L’idiota, è un puro e, ciononostante, non è in grado di proteggere chi gli sta intorno dalla morte e dalla disperazione, né tantomeno di salvare sé stesso – il suo destino è infatti quello di sprofondare nella demenza. L’idiota, dicevo, è un capolavoro assoluto, ma è un caso quasi unico: mentre lo architettava, Dostoevskij era consapevole del fatto che “non c’è nulla di più difficile al mondo” che tentare il ritratto della purezza d’animo; leggendo le lettere che scrisse in quegli anni, si scopre che lo scrittore russo sapeva di correre un gran rischio, poiché quasi tutti gli autori che, nel passato, avevano provato a rappresentare la bontà avevano fatto fiasco: guardando alla letteratura del passato, Dostoevskij di fatto salvava soltanto due personaggi “buoni” – Don Chisciotte e il Pickwick di Dickens.

L’APPUNTAMENTO – Il 15 marzo, alle ore 18, sulla pagina Facebook de ilLibraio.it, Andrea Tarabbia dialoga con Federica Manzon e Nicola Lagioia all’interno del palinsesto digitale di LibLive

Perché chi tenta di rappresentare la bontà fa quasi sempre fiasco? Il Bene, la bontà e la purezza d’animo non sono raccontabili?

È molto difficile rispondere a queste domande ma, se la letteratura di ogni tempo è piena di straordinarie figure di cattivi, se il Male ha esercitato sugli scrittori una fascinazione ben più profonda e feconda rispetto a quanto ha fatto il Bene, un motivo ci sarà. Provo a dare il mio piccolo contributo a questo dibattito, che va avanti da secoli e per secoli continuerà.

Io credo che la letteratura sia più capace di raccontare il Male perché, alla radice stessa dell’arte del raccontare, sta una rottura, qualcosa che va storto: raccontiamo insomma ciò che non funziona. Nessuno racconta nei minimi dettagli un tragitto in autostrada, a meno che non gli sia costato ore e ore di coda o gli sia fuso il motore mentre era fermo al casello; nessuno racconta nel dettaglio che è andato al supermercato: ma se mentre era in fila alla cassa hanno fatto una rapina… insomma sentiamo il bisogno di costruire storie quando c’è qualcosa che non funziona, e il nostro racconto è proprio il tentativo di raddrizzare queste storture. Il Male è qualcosa che, nella nostra percezione, va prima di tutto compreso – e già questa comprensione è motivo di racconto – quindi raddrizzato, redento, sistemato, e questi “aggiustamenti” sono, pertanto, tutti motori di storie possibili.

A metà degli anni Cinquanta del Novecento, un grande pensatore francese, Georges Bataille, dedicò a La letteratura e il male un famoso libro costituito da otto ritratti di autori – da Emily Brontë a Charles Baudelaire, dal marchese de Sade a Franz Kafka.

Sentite cosa scrive Bataille nella brevissima prefazione a questi ritratti: “La letteratura è l’essenzialità o non è niente… Il Male – una forma acuta del Male – che si esprime in essa, ha per noi, credo, valore sovrano”. Per Bataille, pensatore radicale, la possibilità di accedere al Male è la condizione stessa della libertà umana: siamo esseri umani perché possiamo trasgredire le regole e violare divieti sapendo che li stiamo violando; l’espressione più acuta di questa violazione e di questa libertà è la letteratura, perché la letteratura, quando è autentica, mette in discussione tutte le norme, va contro le leggi della convivenza civile, sta dalla parte dei colpevoli e ritrae il lato oscuro e indicibile dell’umanità. Come fece, appunto, il marchese de Sade nei suoi libri, in cui, per perseguire una forma totale di libertà, si commettono turpitudini spesso ai danni di persone innocenti, si trasgredisce ogni regola e si disprezza e si deride apertamente la morale corrente.

Anche senza andare all’estremo, rimane che, tra le pratiche umane, la letteratura ha esplorato in modo molto più proficuo il Male e la cattiveria, anziché il Bene: un altro motivo di questa scelta, forse, è legata a un modello insuperabile – il Nuovo Testamento.

Sosteneva Borges che tutta la letteratura occidentale non è che un derivato di tre modelli, tre scritture archetipiche che continuamente gli uomini hanno riletto e riscritto: l’Odissea, l’Iliade e, appunto, il Nuovo Testamento. In quei tre testi sta racchiuso ogni tema possibile: il viaggio, il ritorno, l’amore, la guerra, la morte, la tentazione, la fede, il sacrificio di un dio e, appunto, l’eterna lotta tra Bene e Male. Forse la letteratura ha indagato meno il Bene proprio perché in uno dei suoi tre modelli archetipici esso è rappresentato nella sua forma Somma e inimitabile: vale a dire che la bontà e la santità e la bellezza di Cristo sono insuperabili – dunque chi tenta di rappresentare il Bene sostanzialmente fallisce al cospetto del modello: nessun “buono” da romanzo può essere in grado di competere con il dio incarnato che si sacrifica per gli uomini; non è dunque un caso che due dei più famosi – e riusciti – “buoni” della letteratura universale siano un anziano cavaliere errante buffo e un po’ tocco e un giovane principe russo la cui vita è sospesa sull’orlo della follia.

L’AUTORE – Andrea Tarabbia è nato a Saronno nel 1978. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi La calligrafia come arte della guerra (2010), Il demone a Beslan (2011, che ora torna in libreria per Bollati Boringhieri), Il giardino delle mosche (2015; Premio Selezione Campiello 2016 e Premio Manzoni Romanzo Storico 2016) e il saggio narrativo Il peso del legno (2018). Nel 2012 ha curato e tradotto Diavoleide di Michail Bulgakov. Con Madrigale senza suono ha vinto il premio Campiello 2019.

Fonte: www.illibraio.it