Stiamo per pubblicare un saggio molto curioso, che solleciterà la fantasia di chi pensa che i propri ricordi siano costellati anche da tutti quegli oggetti materiali che arredano i luoghi in cui abitiamo e allo stesso tempo affascinerà chi è nato in un mondo già digitalizzato, in cui forse vengono meno caratterizzazioni locali e tutto […]
Stiamo per pubblicare un saggio molto curioso, che solleciterà la fantasia di chi pensa che i propri ricordi siano costellati anche da tutti quegli oggetti materiali che arredano i luoghi in cui abitiamo e allo stesso tempo affascinerà chi è nato in un mondo già digitalizzato, in cui forse vengono meno caratterizzazioni locali e tutto in città, a partire dalle insegne dei negozi, sembra essere uguale a se stesso.
Il saggio di Vittorio Magnago Lampugnani, architetto ed esperto di storia delle città, ci racconta l’origine, lo sviluppo e la declinazione locale dei piccoli oggetti d’arredo urbano, a cui spesso non badiamo, ma che danno forma alla nostra quotidianità e raccontano la cultura di un luogo.
Un saggio stupefacente per profondità e ricchezza, con molti dettagli inaspettati che sollecitano il lettore a guardare la città con occhi nuovi.
Qui riportiamo una prima curiosità su cui forse non abbiamo mai riflettuto.
DALLA CABINA TELEFONICA INSONORIZZATA ALLO SMARTPHONE. VIVA IL VOYERISMO.
Fra i numerosi oggetti urbani, la cabina telefonica è uno degli elementi più significativi per capire quanto drasticamente sia mutata la fruizione dello spazio pubblico.
La prima cabina telefonica al mondo fu messa in funzione nel 1878 nel Connecticut; tre anni dopo a Berlino veniva installato il primo «chiosco telefonico», dove i biglietti telefonici davano diritto a una chiamata di cinque minuti. Circa trent’anni dopo, sempre in Germania fu progettata una cabina standardizzata, dove era addirittura possibile sedersi. Alcuni modelli fungevano anche da distributori di francobolli. In Gran Bretagna le cabine telefoniche arrivarono più o meno negli stessi anni ed erano costruite in legno o ghisa senza particolari standard estetici. Erano amati soprattutto i modelli dal sapore rustico, che venivano utilizzati anche come «silence cabinets» per trovare riparo dalla frenesia cittadina. In Italia, per l’installazione della prima cabina telefonica, si dovette aspettare il 1952 e fu Piazza San Babila a Milano il luogo prescelto.
La rivoluzione antropologica delle telecomunicazioni è sotto gli occhi di tutti e non potrebbe essere più radicale. Basti pensare infatti che le prime cabine telefoniche erano concepite come spazio intimamente privato, in cui nessuno doveva essere testimone di conversazioni altrui.
Nel secondo dopoguerra le cabine si trasformarono in luoghi spartani e freddi, con divisori trasparenti che abolivano l’intimità. Le comunicazioni dovevano essere veloci e dettate da necessità, non c’era spazio per la chiacchiera. In più si doveva, anzi si voleva, essere visti e ascoltati.
I cellulari, se ci pensiamo bene, sono l’evoluzione, non di rado voyeristica e fastidiosa, di questo «uomo telefonante».
Allo stesso tempo assistiamo al recupero nostalgico di questi oggetti urbani, che spesso vengono trasformati in piccoli spazi di memoria, mini-biblioteche, mini-musei o mini-bar. Forse la testimonianza oggettiva di una ritrovata necessità di privacy.