Perché la memoria del nostro paese è così labile quando si parla di colonialismo italiano? Abbiamo chiesto a Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone e Ma perché siamo ancora fascisti, di rispondere a qualche domanda legata all’uscita del suo nuovo saggio Noi però gli abbiamo fatto le strade (in libreria dal […]
Perché la memoria del nostro paese è così labile quando si parla di colonialismo italiano?
Abbiamo chiesto a Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone e Ma perché siamo ancora fascisti, di rispondere a qualche domanda legata all’uscita del suo nuovo saggio Noi però gli abbiamo fatto le strade (in libreria dal 7 ottobre)
Cos’è il colonialismo italiano?
A questa domanda rispondo partendo da un’altra domanda, qual è il motore del colonialismo europeo?
Cioè, che cosa spinge uno stato sovrano a invadere territori fuori dai propri confini per insediarvi degli avamposti in cui imporre nuovi assetti politici, economici e culturali?
Ovviamente i motivi sono moltissimi e variano nel corso del tempo: cause economiche, demografiche, culturali, politiche.
Per quanto riguarda il colonialismo italiano, nel suo ottantennio abbondante di attività, la pulsione verso l’oltremare arriva quasi sempre da ragioni di prestigio: l’Italia cerca, affannosamente e con risultati dubbi, il suo posto nel mondo e la possibilità di raccontarlo.
Il colonialismo italiano si caratterizza per una spasmodica ricerca di visibilità, di imprese e immagini che possano raccontare agli altri Stati europei la propria forza e modernità. Una fetta di mondo deve essere italiana perché questa sarebbe stata la patente di maturità e grandezza di un popolo che ha ancora enormi problemi di autocoscienza.
È la “grande proletaria” che si muove cercando di scrollarsi di dosso povertà e ignoranza, per dimostrare che anche gli italiani sono “bianchi”.
Per fare questo, l’establishment politico-militare non esita a mettere in campo energie immani, perseguendo i propri obiettivi con fredda brutalità. Perché in nome della propria superiorità ogni efferatezza verso l’Altro, il diverso, appare giustificabile.
Quando inizia il colonialismo italiano?
Fin dagli albori, quando cioè nella seconda metà dell’Ottocento, prima con un’azione commerciale privata – con la compagnia Rubattino ad Assab dal 1869 – e poi con una decisa pressione governativa – la colonia Eritrea viene creata nel 1882 – il colonialismo made in Italy si caratterizza per una certa dose di approssimazione e opportunismo: gran parte del globo è già occupata dalle altre potenze coloniali, così, di volta in volta, all’Italia rimangono da incamerare i brandelli di quel che avanza del grande “banchetto” imperialista europeo.
Quali differenze ci sono state, nell’atteggiamento, nella tattica e nella retorica degli italiani tra
colonialismo in Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia?
Questa totale casualità nell’occupazione di terre “libere” da mire occidentali compromette la possibilità di avere una strategia d’insieme di medio-lungo periodo per quanto riguarda la politica coloniale del paese.
Eritrea, Somalia e poi Libia e, infine, l’occupazione dell’Etiopia, costituiscono tutti tentativi di approfittare di territori tra loro diversissimi per popolazione, economia e società, in cui, ogni volta, si è costretti a costruire delle possibili politiche di dominio ad hoc, fatto che impedisce lo sviluppo di un’amministrazione coloniale con direttive chiare o obiettivi comuni.
Addentriamoci nell’uso della lingua e in quelle espressioni che il colonialismo ci ha portato in eredità e che ancora oggi si sentono usare in contesti anche scherzosi o ironici. Per esempio, perché si dice “non ho mica l’anello al naso”?
L’impero spezzettato e raffazzonato è, a ben vedere, una delle strutture più longeve della storia italiana: dagli anni ottanta dell’Ottocento fino alla conclusione del mandato fiduciario in Somalia, nel 1960, dall’Italia liberale a quella repubblicana, passando per il ventennio fascista, le colonie sono parte della politica, e quindi anche dell’immaginario, della Penisola.
L’oltremare entra nella mentalità comune, attraverso parole e espressioni idiomatiche, e questo linguaggio nuovo, da dominatori, modifica a sua volta l’immagine che l’Italia ha di sé e del mondo: “non ho mica l’anello al naso”, affermano gli italiani che non vogliono essere presi in giro, come dei “selvaggi”, chiamando “tucul”, con disprezzo, i luoghi in cui non abiterebbero mai.
Nel 1992, Angelo Del Boca osservava: «Una famiglia su dieci in Italia possiede sicuramente un oggetto di provenienza coloniale […] Su questo immenso museo privato, da mezzo secolo si deposita la polvere. Lo stesso avviene sui ricordi, le certezze, i dogmi della stagione coloniale […] L’uomo è andato sulla Luna e si è impadronito dei segreti dell’atomo, ma per una parte non infima degli italiani il passato africano si è come pietrificato, e non c’è revisione critica che possa scalfirlo»*.
*Si rimanda per la citazione alla rivista Il Mulino
Perché questa resistenza alla memoria, più che memoria resistente, secondo te?
Per le colonie partono milioni di uomini, per lo più in armi, che ritornano col loro pezzo di memoria.
Praticamente in tutte le famiglie italiane c’è qualcuno che fa esperienza dell’oltremare, eppure dopo la fine della Seconda guerra mondiale questa memoria, benché di riporto e soggettiva, scompare.
Così come scompare, senza essere metabolizzata, l’enorme mole di propaganda coloniale che per più di mezzo secolo aveva bombardato la società del paese.
Una scomparsa repentina, come repentina fu la perdita dei possedimenti ultramarini, che però ogni tanto, come un fiume carsico, torna in superficie, quando ad esempio ci sono da fare i conti con l’Altro, il diverso, che magari sbarca sulle nostre coste in cerca di fortuna.
Ecco che allora tutto l’armamentario della superiorità del dominatore riaffiora, così come si fanno sentire le paure per “l’uomo nero” di turno, che insidia la “nostra” civiltà e le “nostre donne”.
E Calimero? Cosa c’entra con le colonie?
Nella pubblicità del detersivo per cui nacque, all’epoca, alla fine il pulcino Calimero veniva lavato e “per fortuna” tornava bianco.
Una sbiancatura che rende normale il diverso, che è un po’ quello che ancora oggi, in maniera più o meno conscia, milioni di persone nel nostro paese vorrebbero fare.
Lavare via l’alterità, e con essa la responsabilità nei confronti di un passato taciuto per troppo tempo.