Tutankhamon è lo specchio del Novecento Quando scoprì la tomba di Tutankhamon, quello che poi divenne per tutti “il faraone bambino”, Howard Carter non sapeva cosa sarebbe accaduto di lì a pochi anni. La trasformazione in icona, il volto stesso dell’Antico Egitto, una nuova stagione archeologica, ma soprattutto un evento che si coprì di una […]
Tutankhamon è lo specchio del Novecento
Quando scoprì la tomba di Tutankhamon, quello che poi divenne per tutti “il faraone bambino”, Howard Carter non sapeva cosa sarebbe accaduto di lì a pochi anni. La trasformazione in icona, il volto stesso dell’Antico Egitto, una nuova stagione archeologica, ma soprattutto un evento che si coprì di una tale carica simbolica da far sì che tutti i potenti della terra volessero in qualche modo rendergli omaggio.
A cento anni dalla sensazionale scoperta, Christina Riggs, docente di History of Visual Culture all’Università di Durham e specialista di storia dell’arte e dell’archeologia, in particolare dell’Antico Egitto, ci accompagna alla scoperta del significato della tomba di Tutankhamon, in un viaggio lungo come tutto il Novecento.
Scopriamo così che Jacqueline Kennedy fu la prima ad accogliere il giovane faraone in America, che le esposizioni dei suoi tesori negli anni settanta andavano mano nella mano con la politica della guerra fredda, che l’immagine del faraone bambino ci ha accompagnato fino a oggi, fino ai moti di Piazza Tahrir.
L’autrice sarà ospite del Museo Egizio di Torino nel luglio 2022. Vi invitiamo a consultare il sito del Museo per maggiori dettagli. L’evento sarà inoltre trasmesso in streaming dai canali del Museo.
Per approfondire vi invitiamo ad ascoltare l’intervista all’autrice dedicata al rapporto tra archeologia ed espansionismo coloniale nel Novecento.
Qui vi anticipiamo alcune pagine del libro
Prima edizione giugno 2022
© 2021 Christina Riggs
Titolo originale Treasured. How Tutankhamun Shaped a Century
© 2022 Bollati Boringhieri editore
Traduzione di Gianna Cernuschi
Tutankhamon rientra nel nostro racconto passando per la Berlino bombardata e le strade alberate di Philadelphia, la città americana dell’amore fraterno. Le due città sono legate dall’egittologo tedesco Rudolf Anthes, che nel 1939 era stato rimosso dalla sua posizione di direttore pro tempore del Museo Egizio di Berlino per i suoi sentimenti antinazisti. Durante la guerra, Anthes prestò servizio come ufficiale doganale e per diversi mesi fu prigioniero di guerra dietro le linee dell’Armata Rossa, prima di essere nuovamente nominato direttore del museo nel settembre 1945. Quando gli alleati gli permisero di tornare sulla Museuminsel insieme agli altri curatori, Anthes descrisse con una prosa distaccata la devastazione subita dai magazzini dove erano stati nascosti i reperti che non erano stati mandati nei bunker in città o fuori Berlino (come il busto di Nefertiti, inviato con altre opere d’arte alla miniera di sale di Merkers, a 400 chilometri dalla città). Le opere erano state imballate in casse conservate dietro porte sigillate nei sotterranei del Neues Museum e del Pergamon Museum. I sigilli erano stati spezzati, le casse erano state aperte o erano scomparse, e molti oggetti erano spariti oppure avevano subito seri danni. Toccava ad Anthes riparare come meglio poteva i danni causati dalla guerra alla collezione e all’edificio (quando lo vidi per la prima volta negli anni novanta, il Neues Museum era un guscio tenuto in piedi dai ponteggi), ma presto si trovò di nuovo dalla parte sbagliata della politica, quando nel 1949 fu creata la Repubblica Democratica Tedesca.
Un invito a recarsi all’Università della Pennsylvania come professore di egittologia offrì ad Anthes l’opportunità di ricominciare da capo: aveva più di cinquant’anni. Il suo ruolo prevedeva anche di essere il curatore della sezione egizia del museo di archeologia e antropologia dell’università. Il direttore del museo, Froelich Rainey, originario del Montana, aveva grandi ambizioni per l’istituzione che dirigeva e connessioni altolocate, in parte grazie al servizio prestato durante la seconda guerra mondiale presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Quando venne diramato l’appello dell’UNESCO, Rainey vide la possibilità di procurare al museo siti archeologici più promettenti per gli scavi di Anthes. La loro vecchia concessione a Menfi, che avrebbe dovuto rivelare un palazzo antico, aveva fruttato quasi solo fango.
L’elezione di John F. Kennedy nel novembre del 1960 creò in America un momento di apertura culturale internazionale, anche se il gelo della guerra fredda era ancora pungente. A meno di quattro mesi dalla sua elezione, Kennedy dichiarò il suo appoggio incondizionato alla campagna dell’UNESCO, e per associazione all’Egitto e al presidente Nasser. Il Congresso degli Stati Uniti promise di donare 12 milioni di dollari per lo spostamento dei templi di Abu Simbel, che erano stati presentati come la priorità. In più, l’America avrebbe offerto l’expertise in campo archeologico, come gli scavi che l’Università della Pennsylvania e altri atenei erano impazienti di cominciare.
Mentre era in viaggio in Nubia alla ricerca di siti, Rainey pensò che un prestito di artefatti provenienti dalla tomba di Tutankhamon agli Stati Uniti avrebbe potuto aiutare a promuovere l’interesse pubblico per la campagna nubiana e rendere il suo finanziamento con fondi pubblici più accettabile per i cittadini americani. Rainey aveva una certa influenza in qualità di presidente dell’Associazione americana dei musei e, con John Badeau, l’ambasciatore statunitense in Egitto, presentò l’idea a Tharwat Okasha. Il governo egiziano aveva già inviato in Europa dei reperti per una mostra (Five Thousand Years of Egyptian Art, tenutasi nel 1962 a Londra) e Okasha aveva incoraggiato scambi di cantanti, ballerini e musicisti tra il Cairo e Parigi. Perché non mettere insieme un paio di dozzine di artefatti tra le migliaia presenti nella tomba di Tutankhamon per fare qualcosa di simile?
Era più facile a dirsi che a farsi, come la maggior parte delle cose che riguardano Tutankhamon. Gli Stati Uniti non avevano un Ministero della Cultura con cui negoziare, ma la Smithsonian Institution si offrì in qualità di organizzazione di livello nazionale in grado di ricevere il prestito come richiedeva la legge egiziana e di organizzare una mostra itinerante di tre anni in diciotto città di tutto il paese. Un altro argomento spinoso era l’assicurazione, dal momento che il premio era troppo alto per la Smithsonian o per qualsiasi altro museo. L’associazione filantropica dei fratelli Rockefeller si fece avanti per pagare, in contanti, i costi di assicurazione per la lista definitiva degli artefatti: trentun piccoli pezzi provenienti dalla tomba di Tutankhamon, più tre dalla splendida sepoltura di Sheshonq, scoperta a Tanis alla vigilia della seconda guerra mondiale.
Fu così che nel novembre del 1961, elegante come sempre in abito nero, tacchi alti e filo di perle, Jacqueline Kennedy arrivò non accompagnata alla National Gallery of Art di Washington DC per inaugurare una mostra senza precedenti. Al museo, i rappresentanti dell’Egitto – tra cui Tharwat Okasha con la moglie Islah e il professor Ahmed Fakhry dell’Università del Cairo – stavano aspettando la first lady per mostrarle la selezione di oggetti della tomba di Tutankhamon, esposti in semplici teche attorno alla rotonda del museo: un paio di guanti di lino, un cofanetto per gioielli in alabastro, e il sarcofago d’oro in miniatura che mi avrebbe abbagliata anni dopo con la sua superficie brillante intarsiata di pietre e vetro colorato. La signora Kennedy sorrideva, chiacchierava, e posava per le onnipresenti macchine fotografiche, che erano più interessate a lei che al faraone il cui corredo funebre aveva fatto così tanta strada per l’occasione.
Intitolata Treasures of Tutankhamon, la mostra era sobria come l’abito di Jacqueline Kennedy. Tuttavia, rappresentò un gesto importante da parte del governo egiziano. Nessun artefatto proveniente dalla tomba di Tutankhamon aveva mai lasciato il paese prima di allora (per lo meno, non in modo legale), ma quasi quarant’anni dopo la scoperta, ecco i reperti in America, accolti dalla first lady. Gli Okasha portarono ai Kennedy anche un dono dell’Egitto: una statua di pietra calcarea risalente all’Antico Regno. Una troupe televisiva americana filmò il momento, e una stazione in lingua araba parlò con Okasha del dono culturale che l’Egitto stava per condividere con gli Stati Uniti. Sia Tutankhamon che un gruppo di danzatori egiziani erano diretti all’Esposizione universale che si sarebbe tenuta a New York nel 1964.
Prima, però, la mostra attraversò gli Stati Uniti in lungo e in largo, e il timore di Rainey che il pubblico avesse dimenticato Tutankhamon si rivelò infondato. In occasione di ognuna delle mostre, della durata di un mese, il numero di visitatori fu da record. Anche le vendite di un catalogo senza pretese con un’introduzione di Rudolf Anthes andarono benissimo. Dopo Washington, la seconda tappa fu il museo dell’Università della Pennsylvania, che aveva deciso di non aumentare il biglietto di ingresso. La fila per entrare era lunga «diversi isolati», costringendo Rainey ad ammettere di non essersi mai sbagliato tanto in vita sua. La mostra itinerante non toccò solo la Costa orientale e quella occidentale, ma anche Omaha, Houston, St Louis, Detroit, e niente meno che tre città dell’Ohio: Cleveland, Dayton e Toledo (la città di mia madre, anche se allora lei era troppo occupata con il suo primo figlio per preoccuparsi di Tutankhamon o Jacqueline Kennedy). La tappa finale fu New York, dove i tesori di Tutankhamon furono esposti alla Carnegie Hall, vicino alle Nazioni Unite, prima di essere trasferiti nel futuristico padiglione della Repubblica Araba Unita all’Esposizione universale del 1964. Da lì, la mostra partì per visitare quattro città del Canada nel 1965 e tre del Giappone, per chiudersi nel 1966.
Tutankhamon stava conquistando cuori e menti per la campagna dell’UNESCO. I comunicati stampa e la copertura mediatica in ogni città avevano sottolineato il legame tra il salvataggio dei templi della Nubia e l’opportunità unica di vedere oggetti provenienti dalla tomba di Tutankhamon fuori dall’Egitto per la prima e forse ultima volta. Per una parte della mostra itinerante, Ahmed Fakhry si prese un periodo sabbatico in America e tenne conferenze aperte a tutti su Abu Simbel, «la perla del Nilo», accompagnate, in molte tappe, da ingrandimenti fotografici dei grandi colossi di Ramses II in tutto il loro splendore e dei templi di File che si ergevano sulla loro isola in mezzo al Nilo. Chi avrebbe potuto stare a guardare lasciando che quegli antichi monumenti scomparissero?
Nessuna delle inaugurazioni poteva competere con lo stile che la signora Kennedy aveva portato alla National Gallery of Art, ma ogni evento era un’occasione per oliare gli ingranaggi della politica ed esercitare un po’ di soft power. I tesori trascorsero l’estate del 1962 al Chicago Natural History Museum (oggi Field Museum), sulla cui lista per il ricevimento inaugurale figuravano il console dell’Egitto (o, come si diceva all’epoca, della Repubblica Araba Unita) Issa el Din; l’ambasciatore egiziano alle Nazioni Unite, il dottor Mahmud Riad; il governatore dell’Illinois, Otto Kerner; e il sindaco di Chicago, Richard Daley; oltre a una serie di sostenitori del museo, di esponenti dell’alta società e accademici dell’Oriental Institute dell’Università di Chicago. I curatori del Museo Egizio del Cairo accompagnarono i reperti per tutto il loro viaggio.
Anche dopo aver sborsato la tariffa di 4575 dollari chiesta dallo Smithsonian Institution’s Travelling Exhibition Service, i musei che avevano ospitato la mostra scoprirono che era una macchina da soldi. Il Chicago Natural History Museum accolse 28.000 visitatori nei fine settimana più affollati, compreso il 4 luglio. In totale, più di 123.770 persone andarono appositamente per vedere la mostra su Tutankhamon, durata un mese. Nel 1962, il museo ebbe un incremento di visitatori dell’11% rispetto all’anno precedente, cosa che venne attribuita alla pubblicità generata dalla mostra: il gruppo di relazioni pubbliche del museo aveva fatto pubblicare articoli sui giornali cittadini e regionali, aveva pubblicizzato la mostra sui treni e sugli autobus, e aveva spedito poster e depliant alle scuole e alle università. La serata inaugurale venne mostrata sul canale televisivo locale e un fortunato dodicenne, John Witte, entrando alla mostra vinse una tessera di socio a vita per essere stato il visitatore numero 50.000.000. Con un biglietto d’ingresso di 50 centesimi (non ripeterono l’errore di Rainey), il totale del ricavato dalla vendita dei biglietti fu di 41.090,75 dollari, a cui si aggiunsero più di 12.753 dollari solo per il catalogo illustrato, venduto a un dollaro. Dopo aver sottratto le spese (l’affitto, il personale in più per la sicurezza e le biglietterie, un considerevole budget per le relazioni pubbliche, i trasporti per il curatore, Mohammed Hassan Abdul-Rahman, e una quota per le conferenze di Fakhry, più i costi per la spedizione dei reperti verso la destinazione successiva a Seattle), rimanevano ancora 11.179,47 dollari di guadagno. Non male per un anno in cui il ricavato di tutti gli ingressi a pagamento era stato appena superiore ai 54.346 dollari. I guadagni della vendita del catalogo furono pari a 1867,70 dollari, e le copie invendute vennero inviate al museo che avrebbe ospitato la tappa successiva della mostra. Dato che la mostra era stata ideata per pubblicizzare la campagna nubiana e non per finanziarla, il ricavato andò direttamente nelle casse di ognuno dei musei ospitanti. Molti di loro presero nota, e così fece anche il ministero di Tharwat Okasha in Egitto.
Tutankhamon era di nuovo in pista.