Si può uscire da un’ossessione amorosa? «Un’ossessione, se ben gestita, non fa male a nessuno, basta sapere di che cosa si tratta e ormai io lo so di che cosa si tratta, in quarant’anni le fasi dell’ossessione le ho passate tutte almeno dieci volte». Si può davvero pensare per tutta la vita al primo amore […]
Si può uscire da un’ossessione amorosa?
«Un’ossessione, se ben gestita, non fa male a nessuno, basta sapere di che cosa si tratta e ormai io lo so di che cosa si tratta, in quarant’anni le fasi dell’ossessione le ho passate tutte almeno dieci volte».
Si può davvero pensare per tutta la vita al primo amore nato e cresciuto sui banchi di scuola?
È successo a Marco Drago, che in queste pagine ricche e tortuose (nella migliore accezione possibile per la letteratura, pagine mimetiche, pagine che sembrano le nostre vite) allena il muscolo della memoria per ricostruire piccoli pezzi di vita vissuta, a volte immaginata.
Innamorato è una confessione rara del sentimento maschile, che non cede mai all’autocommiserazione e che trova nell’autoironia il miglior metro per misurare i ricordi, e svelare la potenza di ciò che accade a ciascuno di noi nel corso dell’adolescenza.
Il romanzo sarà in libreria a partire dal 24 gennaio 2023 e anticipiamo qui un estratto
Prima edizione gennaio 2023
© 2023 Bollati Boringhieri editore
Facile adesso, dopo più di trent’anni, fare ironia, liquidare il tutto come pazzia giovanile. Quell’esame assume, mentre ci si è dentro, un’importanza quasi assoluta. Nella mente dei maturandi tutto il mondo esterno è concentrato sull’esame. In qualche modo, i maturandi credono che genitori, zii, fratelli maggiori, amici dei genitori, negozianti del quartiere e perfino gli sconosciuti che incontrano per strada vivano tutto quell’anno per sapere come andrà il loro esame. Già a partire dall’anno dopo ci si è dimenticato tutto, l’argomento provoca risolini di sufficienza, chi è all’università ha trasferito lo stesso carico d’ansia sugli appelli e pensa che adesso di esami di maturità ne deve dare cinque o sei all’anno, chi si è messo a lavorare rimpiange la vita dorata dello studente superiore e maledice la schiavitù a cui si è volontariamente consegnato. È un momento unico nella vita di ognuno. Ognuno ha un ricordo o più ricordi vividi legati a quell’esperienza. Ognuno ricorda le facce dei commissari esterni, il titolo della traccia di italiano, la sensazione provata una volta superato anche l’orale.
Nel pieno della preparazione, maggio-giugno, mi tocca pure fare un paio di concerti con la band demenziale reggae, uno dei quali, il primo, vede lei con alcuni componenti della compagnia tra il pubblico. Si tratta di una rassegna con ben sei band locali, anzi ultralocali, sei band tutte del nostro paese, non ci si crede a pensarci adesso, sei band di ventenni, ognuna con il proprio repertorio e i propri strumenti (noi no, noi non facciamo mai le prove e gli strumenti ce li facciamo prestare). Sei band in una serata significa che se suoni per quinto suoni dopo la mezzanotte e fai giusto quattro pezzi. Le prime quattro esibizioni sono ordinarie, c’è il gruppo dominante, che presenta un sound molto contemporaneo, tra U2 e Cure, c’è il gruppo più in stile new wave italiana (Diaframma e Litfiba), c’è il gruppo dell’oratorio con le cover di Guccini e dei Creedence, c’è il gruppo hard rock che copia Van Halen e AC/DC (col chitarrista solista mezzo cieco ma fenomenale in quanto a precisione e velocità) e poi arriviamo noi, prima del sesto gruppo che è invece prog-heavy metal, una roba per l’epoca ancora molto inedita, ma quelli sono destinati a suonare all’una davanti a dodici persone malcontate. Noi arriviamo sul palco senza la minima idea di quello che avremmo fatto, io suono la tastiera del gruppo precedente, non so nemmeno come cercare i suoni, uso il primo preset che trovo, il batterista dà il quattro e cominciamo, il primo pezzo va tutto bene, è abbastanza conosciuto perché era tra quelli della cassetta registrata a casa mia l’estate prima, è diventato una specie di inno per i ragazzini locali, tutti cantano in coro il ritornello, insomma tutto bene.
Il secondo pezzo non ci siamo messi d’accordo bene se farlo in Do o in Fa e quindi il bassista lo suona in Do e io e il chitarrista in Fa. Dopo pochi secondi il tipo al mixer decide di abbassare del tutto il volume del basso. Ottimo.
Il terzo pezzo è nuovo, mai suonato prima, si intitola Il camion e dice, in forma di domanda e risposta: Guarda là che bel camion / Lo riempiamo tutto di merda / Gli pisciamo nel serbatoio / Lo riempiamo tutto di merda / Gli vomitiamo nella cabina / Lo riempiamo tutto di merda e così via. Pubblico in delirio che canta in coro il verso Lo riempiamo tutto di merda. Dal palco vedo la macchina dei Carabinieri che si avvicina ai cancelli del cortile in cui si svolge la rassegna e allora mi viene da cantare: Guarda là che bella pattuglia e il pubblico La riempiamo tutta di merda.
Va be’, insomma, alla fine scendo dal palco tutto sudato e tremante di eccitazione e lei e i suoi amici mi sorridono ma lo vedo che non sono affatto convinti di avere a che fare con una persona del tutto a posto. Dire che la loro reazione è fredda è dire poco, mentre tutt’intorno è un tripudio: dopo quattro gruppi che fanno due palle così, finalmente un po’ di vero spirito punk.