I resoconti dei suoi soggiorni in Africa, che coprono un periodo di quasi cinquant’anni, fanno emergere insospettate dinamiche di relazione e potere, fornendo riflessioni uniche sulla storia dell’antropologia e sui tentativi di «decolonizzare» la disciplina. Che cosa significa fare ricerca in Africa negli anni sessanta per una donna bianca istruita? Nei nomi poco lusinghieri che riceve dalle persone che incontra – «scimmia», «pazza» o «cannibale» –, Behrend non solo si confronta con l’esperienza straniante nel paese straniero, ma si chiede quale storia coloniale esprimano questi nomi e come siano mutati i rapporti di potere tra «esploratori» ed «esplorati». È proprio la frequentazione dell’Africa durata mezzo secolo che permette all’autrice di registrare il cambiamento nel tempo: decenni in cui le condizioni (post-)coloniali sono cambiate radicalmente, ma «il peso del mondo», come Bourdieu descrive la globalizzazione, non si è affatto esaurito. Al contrario, Behrend punta il dito su tutte le forme di dipendenza contemporanee che hanno creato condizioni di povertà talvolta peggiori rispetto a quelle del colonialismo della prima metà del Novecento.
La scimmia in bermuda è un’autobiografia critica ed estrosa che spiega come ciò che conta nelle relazioni umane non siano tanto le differenze fra «noi» e «loro», quanto il riflesso reciproco della rappresentazione degli altri. Raramente un saggio di antropologia è riuscito a mostrare il difficile equilibrio del lavoro etnografico con tanta schiettezza.