Quando uscì in prima edizione italiana, quasi trent’anni fa, questo libro di Thomas R. Nevin su Simone Weil – un ritratto più che una biografia, un corpo a corpo col suo pensiero più che un saggio accademico – stavano prendendo forma numerose edizioni critiche delle opere di questa giovane, eccentrica, irrequieta pensatrice, le cui trame intellettuali spaziavano dalla matematica alla teologia, dal pensiero politico alla mistica, dalle considerazioni sulla libertà a quelle sull’oppressione sociale, sulla guerra, sui doveri di ciascun essere umano verso l’altro. Nonostante la crescita di un interesse culturale autentico per i suoi scritti e la sua figura, non si è esaurita però fino ad oggi quell’aura mitizzante che ha impedito di accostare con libertà di giudizio e insieme con empatia quello che è uno dei pregi del suo pensiero: una «attraente incompiutezza», un movimentato lavorio della mente, il dubbio e il ripensamento come metodo della sua ricerca. Thomas Nevin – e per questo è interessante rileggerlo ora – aggira le trappole della «leggenda», e affronta senza imbarazzi ma con reale curiosità intellettuale le contraddizioni che rimangono irrisolte solo se le si vuole incasellare in una sistematicità e organicità che in un pensiero in fieri come quello di Weil non possono sussistere: l’ambivalenza del suo rapporto con il cristianesimo e con il movimento operaio, le oscillazioni in politica e il faticoso essere dentro la storia, e non ultimo il suo inquietante rifiuto dell’ebraismo. Di fatto, dice Nevin, l’ebrea Simone Weil, nonostante sé stessa, conserva non poco dell’ebraismo: il suo lottare con Dio; il suo fattivo prendersi cura dei deboli e degli oppressi; la centralità della giustizia in tutto il suo operare. Di qui, anche, la convinzione che nella storia sia possibile individuare sentieri che possano «offrire vie d’uscita dai suoi stessi vicoli ciechi».
Gabriella Caramore