Donatella Di Cesare, tra le voci filosofiche più impegnate nel dibattito pubblico contemporaneo, torna in libreria con un saggio sulla tortura, che non sembra più condannata all'unanimità - Su ilLibraio.it il prologo
Donatella Di Cesare, professore ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, tra le voci filosofiche più impegnate nel dibattito pubblico contemporaneo, torna in libreria per Bollati Boringhieri con Tortura.
Perché questa scelta per un saggio? Perché la tortura non è più condannata all’unanimità. Dopo l’11 settembre i nuovi apologeti della tortura hanno infatti trovato nella “guerra al terrore” il motivo per giustificare una pratica mai dismessa che, negli ultimi anni, sembra dilagare ovunque, nelle democrazie non meno che nei regimi dittatoriali. Ma il “no” opposto dall’indignazione non basta più a difendere la dignità umana offesa.
Nel libro Di Cesare offre un quadro critico complessivo della tortura. Ne indica il nesso stretto con il potere, ne mostra la presenza anche nella democrazia. Come lottare contro la tortura, se a delinquere è lo Stato?
Filosofi, scrittori, drammaturghi, registi, poeti vengono interpellati per delineare una “fenomenologia della tortura” che mira a cogliere la peculiarità di una violenza estrema, sistematica e metodica, dove il carnefice calcola e misura il dolore per scongiurare che la vittima muoia e per esercitare ancora il suo potere sovrano.
La tortura è, per la vittima, la propria morte esperita in vita. Da Guantánamo ad Abu Ghraib, dal G8 di Genova agli anni di piombo, da Giulio Regeni a tutti quei casi che hanno recentemente allarmato l’opinione pubblica, la tortura viene esercitata in modo sempre più sofisticato per poter essere negata; incombe ovunque un inerme si trovi nelle mani del più forte: nelle carceri, nei reparti psichiatrici, nei campi per gli stranieri, negli ospizi, nei centri per disabili, negli istituti per minori. E l’assenza di un reato la favorisce.
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Scrivere sulla tortura è una scelta problematica e delicata. Ancora fino a qualche anno fa la condanna, almeno a parole, sembrava unanime. Il che non ha impedito alla tortura di aggirare l’interdizione, di eludere quel divieto, condiviso al punto da assurgere quasi a principio categorico, cercando scampo clandestinamente dietro le quinte.
Ma l’unanimità è venuta meno. I nuovi adepti, un po’ ovunque, sono usciti allo scoperto. Negli Stati Uniti hanno dato avvio a un dibattito. Non sarebbe auspicabile un’eccezione? Non tornerebbe forse utile un ricorso ponderato, limitato, magari addirittura legalizzato alla tortura? La “guerra al terrore” sembrerebbe richiederlo. Si moltiplicano gli sforzi per offrire legittimità a una pratica mai dismessa. I paladini inveterati, dittatori e autocrati, despoti e demagoghi, che hanno continuato a governare nei quattro angoli del mondo, si compiacciono dell’improvvisa crepa, gioiscono dell’insospettabile breccia aperta nella democrazia. Le opinioni pubbliche vacillano incerte e esitanti. Come se il rifiuto istintivo non bastasse più.
L’interdizione della tortura finisce per essere tacciata di utopismo vuoto, inadeguato all’ordine globale, che è invece dominato dalla minaccia del terrore. Si dovrebbe allora proteggere la democrazia autorizzando la tortura, cioè attingere al terrore per combattere il terrore. Ecco perché la questione della tortura è lo spartiacque che separa due letture alternative della storia attuale.
Accettare di discuterne il ruolo e lo statuto, i presupposti e gli esiti, non significa essere disposti ad accogliere in futuro un buon argomento per giustificarla. Il “no” fermo alla tortura viene prima di ogni discussione. Là dove si cominciasse a richiamare casi particolari, dove un filosofo morale almanaccasse su deroghe e restrizioni, la risposta non potrebbe essere che quella, concisa e categorica, della prassi politica: «Non si deve torturare».
Tuttavia il “no”, che scaturisce anzitutto dall’indignazione, non basta a difendere la dignità umana offesa dalla tortura. La riflessione è indispensabile. In tal senso la tortura rappresenta, anzi, il paradigma della questione morale nell’età contemporanea, la cui forma cogente e paradossale è quella sintetizzata da Theodor W. Adorno: «non si deve torturare, non ci devono essere campi di concentramento, mentre tutto ciò continua in Asia e in Africa e viene soltanto rimosso, perché l’umanità civilizzatrice è come sempre inumana nei confronti di quelli che ha svergognatamente marchiato come incivili» (1970, p. 255). Da un canto l’impulso che oppone un “no” deciso, quando si viene a sapere che qualcuno è stato torturato, il senso di solidarietà con i corpi tormentati, la nuda paura fisica di chi si identifica con la vittima, dall’altro la ricerca di una riflessione teorica che non si limiti a razionalizzare quell’impulso, a tradurlo in un principio astratto.
Emerge qui una contraddizione che attraversa lo scenario attuale e chiarisce, almeno in parte, l’impotenza effettiva che ciascuno avverte. È la contraddizione fra il rifiuto spontaneo di dover tollerare ancora quell’orrore intollerabile e la coscienza che intuisce perché, malgrado tutto, l’orrore prosegua e non se ne veda la fine. Proprio la tortura porta alla luce il dilemma del singolo che si dibatte in questa morsa.
In tale scenario drammatico si deve allora riconoscere con franchezza che «nulla è cambiato», come suggerisce il refrain della poesia Torture di Wisława Szymborska, quasi un breve trattato filosofico, dove la perspicuità dello sguardo non impedisce lo stupore incredulo, lo sbigottimento esasperato (2009, pp. 456-59). E se, di fronte al reiterarsi dell’orrore, il “no” mostra la sua inerme ostinazione, si deve tuttavia ricordare che siamo non solo quello che facciamo, ma anche quello che promettiamo di fare o di non fare.
(continua in libreria…)
L’APPUNTAMENTO
Fonte: www.illibraio.it