Lo stesso lavoro progettuale e il rapporto tra poetica e opera risultano sovvertiti da questa singolare rivisatazione intellettuale del fare architettonico, che spezza l’autoreferenzialità e spinge fuori da correnti senza rinunciare all’implicito di suggestioni comuni, radicalizza ambiguità e contraddizioni della tecnica all’insegna della meraviglia e dello spaesamento, non smette di perfezionare un’ermeneutica della città industriale proprio attraverso un punto di osservazione che non concede nulla alle filosofie costruttive più invalse nel dopoguerra. Non vengono risparmiati né la nostalgia antimodernista per la “favola di pietra delle lesene e dei porticati di muschio”, né l’eccletisco divenuto imperante nello stile moderno, con effetti di “balcanizzazione del gusto”. “Per me – afferma Mollino – si tratta sempre di affrontare il problema del costruire senza preoccuparmi se entro o meno nei canoni dell’architettura del nostro tempo o di tutti i tempi, cioè non penso “architettura”. La mia cultura nasce ogni volta”.
Un’ampia antologia di scritti in parte inediti, in parte di difficile reperibilità, che gettano luce su una figura di architetto fortemente atipica, se non unica nell’Italia del Novecento, capace di dialogare con letterati o storici dell’arte, di accedere alla narrazione, di occuparsi di cinema o di urbanistica, di fotografia o di arti decorative, variando volta a volta registri e generi: testi d’invenzione, affondi polemici, riflessioni estetiche, notazioni antropologiche sottraggono la scrittura di Carlo Mollino ai canoni specialistici della professione, appaiono strategie di distacco, più che marche di appartenenza.
Lo stesso lavoro progettuale e il rapporto tra poetica e opera risultano sovvertiti da questa singolare rivisatazione intellettuale del fare architettonico, che spezza l’autoreferenzialità e spinge fuori da correnti senza rinunciare all’implicito di suggestioni comuni, radicalizza ambiguità e contraddizioni della tecnica all’insegna della meraviglia e dello spaesamento, non smette di perfezionare un’ermeneutica della città industriale proprio attraverso un punto di osservazione che non concede nulla alle filosofie costruttive più invalse nel dopoguerra. Non vengono risparmiati né la nostalgia antimodernista per la “favola di pietra delle lesene e dei porticati di muschio”, né l’eccletisco divenuto imperante nello stile moderno, con effetti di “balcanizzazione del gusto”. “Per me – afferma Mollino – si tratta sempre di affrontare il problema del costruire senza preoccuparmi se entro o meno nei canoni dell’architettura del nostro tempo o di tutti i tempi, cioè non penso “architettura”. La mia cultura nasce ogni volta”.
Lo stesso lavoro progettuale e il rapporto tra poetica e opera risultano sovvertiti da questa singolare rivisatazione intellettuale del fare architettonico, che spezza l’autoreferenzialità e spinge fuori da correnti senza rinunciare all’implicito di suggestioni comuni, radicalizza ambiguità e contraddizioni della tecnica all’insegna della meraviglia e dello spaesamento, non smette di perfezionare un’ermeneutica della città industriale proprio attraverso un punto di osservazione che non concede nulla alle filosofie costruttive più invalse nel dopoguerra. Non vengono risparmiati né la nostalgia antimodernista per la “favola di pietra delle lesene e dei porticati di muschio”, né l’eccletisco divenuto imperante nello stile moderno, con effetti di “balcanizzazione del gusto”. “Per me – afferma Mollino – si tratta sempre di affrontare il problema del costruire senza preoccuparmi se entro o meno nei canoni dell’architettura del nostro tempo o di tutti i tempi, cioè non penso “architettura”. La mia cultura nasce ogni volta”.