Danny Orbach, già membro dell’intelligence israeliana e docente, con il saggio "Fuggitivi" racconta del sistema di riciclaggio che ha portato molti ex nazisti all'interno dei servizi segreti occidentali durante la Guerra Fredda. Non solo restarono impuniti, ma poterono prosperare mettendo in pratica la violenza, il doppiogiochismo e le meschinità apprese sotto il Reich. Ne parla su ilLibraio.it lo storico Francesco Filippi
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Una massima amara, quella del Tancredi-Alain Delon del Gattopardo di Visconti, che spesso è stata applicata ai grandi rivolgimenti della storia come una lezione di impotenza. Un’espressione che racconta la capacità di determinati personaggi di sopravvivere anche ai crolli più spettacolari e alle rivoluzioni più violente, in barba a ogni volontà di cambiamento o condanna pubblica.
Fuggitivi, il nuovo libro di Danny Orbach appena tradotto in Italia (da Enrico Griseri per Bollati Boringhieri), racconta le vite dei nazisti che, allo scoccare della Stunde Null, l’ora zero della resa incondizionata del Terzo Reich nel maggio 1945, dovettero ripensare sé stessi.
“Milioni di tedeschi abituati a servire la macchina conquistatrice e genocida di Hitler” si trovarono nella necessità di sbarcare il lunario evitando le accuse dei tribunali alleati, le trappole dei cacciatori di criminali di guerra e la vergogna pubblica per aver partecipato al più grande crimine collettivo della storia dell’umanità.
Paradossalmente, però, molti di loro non fecero troppa fatica a riciclarsi all’interno del nuovo ordine che si andava costituendo: alle soglie di un nuovo, immenso conflitto tra Est e Ovest, furono in tanti a riuscire a vendere al miglior offerente le loro esperienze di spie, sabotatori, torturatori, assassini. La Germania del secondo dopoguerra era un enorme distesa di macerie in cui tutto era in vendita, e tutto si poteva comprare. Anche la lealtà.
Orbach, già membro dell’intelligence israeliana e attualmente docente alla Hebrew University di Gerusalemme, fa luce sui molti aspetti controversi di questo immenso sistema di riciclaggio delle figure che erano appartenute alla macchina nazista: alcuni già indagati dalla storiografia e in qualche modo passati all’immaginario pubblico, come ad esempio l’arruolamento di ex nazisti tra le fila dei servizi segreti occidentali in funzione antisovietica (“cosa c’è di meglio di un nazista per combattere i comunisti?”). Altri meno scontati e per questo ancora più controversi, come l’utilizzo di criminali di guerra da parte dei servizi segreti dell’Est o addirittura la collaborazione tra nazisti impenitenti e i nascenti servizi segreti israeliani.
Un quadro assai poco edificante, in cui la tanto (troppo?) sbandierata ricostruzione della Germania occidentale passa necessariamente attraverso il riutilizzo di migliaia di figure a dir poco imbarazzanti.
La ricerca di Orbach individua quattro tipologie in cui è possibile dividere i “nazisti riciclati” che tentano la sorte durante il secondo dopoguerra: ci sono quelli che dalle macerie dell’ideologia nazista estraggono l’anticomunismo, vendendosi al campo occidentale in nome del comune nemico sovietico. Quelli che si aggrappano invece all’antioccidentalismo hitleriano, cercando rifugio tra le braccia del KGB o trafficando in armi per conto dei movimenti di resistenza anticoloniali. Poi ci sono quelli che rimangono ferocemente antisemiti, offrendo le loro conoscenze e tecniche ai regimi arabi che combattono contro Israele. Infine c’è il gruppo, piuttosto nutrito, di quelli che potremmo definire disillusi, che vendono le proprie competenze a chiunque abbia l’interesse e il denaro per comprarle, a volte passando da un fronte all’altro, o addirittura in contemporanea.
Un vero e proprio mercato dell’intelligence che nel corso del tempo crea non pochi imbarazzi alle strutture stesse della rinata Repubblica di Bonn. Pesano, sulla nuova immagine pubblica che la Germania di Adenauer cerca di mostrare, figure come quella di Reinhard Gehlen, già criminale di guerra nazista reinventatosi organizzatore di reti spionistiche per conto degli americani, che riesce a trasformare la propria agenzia privata composta da torturatori, spie e criminali comuni, la Gehlen Org, nel nucleo fondativo del BND, i servizi segreti della Germania occidentale.
Oppure personaggi come Alois Brunner, comandante del campo di concentramento di Drancy, vicino a Parigi, condannato per crimini contro l’umanità che coniuga l’odio per gli Alleati col proprio viscerale antisemitismo. Scappa a Damasco, da dove coordina il traffico di armi in favore della resistenza algerina, cosa che nel 1961 gli costa un tentativo di assassinio da parte dei servizi segreti francesi. Collabora attivamente alle manovre spionistiche contro il Mossad israeliano.
Lo stesso Mossad che nel 1980 tenta a sua volta di assassinarlo con un pacco bomba, che lo lascia amputato e semicieco. Disconosciuto ma mai davvero perseguito dalla Germania occidentale, Brunner diviene col tempo un ospite ingombrante per la Siria di Assad, che vuole promuovere un cambiamento nelle relazioni internazionali in Medio Oriente in seguito alla caduta del muro di Berlino. Brunner finirà i suoi giorni nel 2001, in un carcere di Damasco, trattenuto in condizioni disumane senza che nessuno dei molti regimi che aveva servito ne sentisse la mancanza.
E poi scienziati nazisti impegnati nei programmi missilistici egiziani, truffatori di scarso successo che vivono di contrabbando tra URSS e Jugoslavia, millantatori che inventano carriere diplomatiche e vendono false informazioni a mezzo mondo.
È un quadro davvero complesso e sfaccettato quello che ci presenta Fuggitivi, attraverso cui non solo si possono leggere le parabole di vita di migliaia di “orfani” della macchina di morte hitleriana, ma è anche possibile comprendere la difficoltà, e spesso il fallimento, del tentativo da parte della società europea post bellica di fare i conti con le brutalità del totalitarismo.
Una schiera di gattopardi che non solo riesce a evitare di pagare lo scotto delle terribili colpe commesse, ma che cambiando casacca al momento giusto può continuare a prosperare mettendo in pratica la violenza, il doppiogiochismo e le meschinità apprese sotto il Reich.
Un esempio storico sconfortante, ma anche un monito per il futuro, visto l’attuale drammatica proliferazione di conflitti che presto o tardi richiederanno il proprio tributo di compromessi, inganni, silenzi, che ogni dopoguerra sembra inevitabilmente pretendere.
L’AUTORE – Francesco Filippi, classe 1981, è autore, storico della mentalità e formatore per l’Associazione di Promozione Sociale Deina. Partecipa inoltre alla programmazione e alla realizzazione di viaggi di memoria e percorsi formativi in tutta Europa.
Per Bollati Boringhieri ha pubblicato saggi come Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (2019), Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto (2020), Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie (2021) e Guida semiseria per aspiranti storici social (2022).
In uscita a settembre per Bollati Boringhieri il suo nuovo libro, Cinquecento anni di rabbia, un saggio che riflette sul rapporto tra rivolte e mezzi di comunicazione negli ultimi 500 anni di storia.
Fonte: www.illibraio.it