"Le vie che orientano", saggio dell'avvocatessa afro-americana Deirdre Mask, esplora i vari modi, spesso inimmaginabili, in cui i nomi delle strade influenzano la vita quotidiana. È un viaggio nelle pieghe della nostra storia e nelle contrapposizioni che l’hanno segnata, perché gli indirizzi rappresentano la nostra eredità culturale, ciò che decidiamo di tenere o buttare via del passato. Ma chi decide quali nomi ricordare? Un libro che si inserisce in dibattiti di grande attualità: se le strade intorno a noi commemorano carnefici e tiranni, abbiamo la responsabilità civile di modificarli, oppure li assumiamo come un precipitato storico immutabile? - L'approfondimento
«Per dove dobbiamo andare?»
“Vogliamo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare? Sa, è una semplice informazione”. Semplice ma tutt’altro che ovvia, la domanda che Totò rivolse a un attonito vigile nella Milano del 1956 passò alla storia della cinematografia italiana come uno dei paradossi della contemporaneità urbana. È il paradosso di volersi orientare senza avere direzioni prescritte, di trovare una collocazione senza restare immobili, di guardare alla propria storia guardando anche a quella altrui, in altri termini, il paradosso di venire a patti con una collettività definita, che inevitabilmente definisce.
Di questo, e molto altro, racconta Le vie che orientano di Deirdre Mask (pubblicato da Bollati Boringhieri nella traduzione di Francesca Pe’), che esplora i vari modi, spesso inimmaginabili, in cui i nomi delle strade influenzano la vita quotidiana. È un viaggio nelle pieghe della nostra storia e nelle contrapposizioni che l’hanno segnata, perché gli indirizzi rappresentano la nostra eredità culturale, ciò che decidiamo di tenere o buttare via del passato.
Ma chi decide quali nomi ricordare? Come può una via determinare l’identità e perfino il destino dei cittadini? E se le strade intorno a noi commemorano carnefici e tiranni, abbiamo la responsabilità civile di modificarli oppure li assumiamo come un precipitato storico immutabile?
L’autrice, avvocatessa afro-americana cresciuta nel North Carolina e laureatasi a Harvard, non si limita a dare una risposta ma ci porta direttamente per mano nelle strade del mondo. Storia sociale, antropologia e urbanistica si intrecciano in capitoli intensi, che ci ritroviamo a leggere increduli e spesso col sorriso. La sua riflessione intorno all’odonomastica – la toponomastica delle strade (dal greco odós, via) – si articola intorno a temi come sviluppo, identità, politica, razza e status sociale.
Per capire quanto è importante un indirizzo, spiega Mask, basta non averne uno. Lo sanno bene i senzatetto delle città occidentali, che non trovano lavoro proprio perché privi di un recapito, oppure gli abitanti delle bidonville, come i tre milioni degli slums di Calcutta, che invisibili agli occhi delle autorità sono esclusi dai servizi di base. Un indirizzo però può salvare anche la pelle, racconta Mask introducendoci alla storia dell’epidemiologia: dai metodi della toponomastica contro il colera nella Londra di metà Ottocento fino all’infernale epidemia che colpì Haiti dopo il terremoto del 2010. D’altra parte, anche durante l’emergenza Covid abbiamo appreso con acuta consapevolezza quanto la diffusione virale dipenda dalla localizzazione dei contagiati.
Ma se gli indirizzi sono un’introduzione di impronta illuminista, come si orientava l’umanità prima di allora? L’autrice si ispira alle “mappe multisensoriali” dell’antica Roma per arrivare ai primi indirizzari della Rivoluzione francese fino ai nomi scurrili dell’Inghilterra vittoriana e alle fantasiose proteste degli abitanti contro il processo di numerazione delle strade. È lo stato moderno – un potere che per definizione diffida di chi è nomade e si sposta – a imporre per la prima volta una dimora identificabile, necessaria per individuare i cittadini, tassarli, imprigionarli o mandarli in guerra. Lo dimostrano gli editti sui numeri civici nella Vienna di Maria Teresa e il progetto precursore del Grande Fratello nella Parigi del Settecento. Raccontano la portata di questa trasformazione antropologica i primi sistemi postali, dotati di appositi detective costretti a risolvere rompicapi per risalire ai destinatari, e l’introduzione salvifica dei codici di avviamento.
Gli indirizzi però, spiega Mask, dipendono anche dal pensiero spaziale promosso dal linguaggio e dalle diverse parti di cervello attivate, come dimostrano le città giapponesi e coreane, che non nominano le strade ma numerano gli isolati (letti dunque non in linee ma in blocchi). Tutt’altro avviene nell’Europa napoleonica, quando gli indirizzi diventano sempre più strumenti di orientamento politico-identitario: dalla laus urbis giacobina con la presa della Bastiglia alla rivoluzione toponomastica sovietica, per giungere a Berlino, in cui i cartelli stradali diventano epitome del secolo delle ideologie.
In una parte quanto mai attuale sulle violenze razziali, Mask indaga problematiche rimaste irrisolte: dalla pancia xenofoba dell’America trumpiana al movimento Black Lives Matter fino alle politiche post-apartheid delle strade di Soweto. Pure nella canzone Where the streets have no name, Bono attribuiva a un indirizzo la capacità di svelarci dove vive il cittadino di serie A e di serie B.
Spie di quartieri malfamati o ricercati, i nomi delle strade a New York possono perfino essere acquistati per speculare su un immobile. D’altra parte, anche nelle città sempre più gentrificate, ci sono organizzazioni no-profit che distribuiscono indirizzi a senzatetto o geolocalizzano punti remoti del pianeta per poter dare un’identità alle persone senza volto.
Il libro di Deirdre Mask – che fino alla fine seduce e sa dare speranza – è particolarmente benvenuto in un paese come l’Italia in cui è ancora carente un dibattito sulla memoria pubblica; dibattito a cui non possono sottrarsi i nomi delle strade in quanto meccanismi pubblici identitari. Nella prefazione italiana a Le vie che orientano vengono presentati diversi esempi di casa nostra. Dalle strade del nuovo Regno d’Italia, in cui nomi di eroi e battaglie risorgimentali costituivano una comune cartografia di appartenenza, ai decreti di Mussolini e a quelli successivi alla sua caduta, fino agli odonimi più problematici dei nostri giorni.
Oggi fra le strade più contestate figurano quelle dedicate a militanti del regime fascista, uno per tutti Giorgio Almirante, una memoria talvolta difesa proprio dai rappresentanti delle istituzioni chiamati a tutelare i valori costituzionali. Oppure quelle che ostentano il retaggio coloniale, commemorando luoghi e protagonisti dell’aggressione all’Africa per l’agognato “posto al sole”. O ancora i toponimi ritenuti responsabili di avvallare il suprematismo bianco.
Così, modifiche di nomi delle strade vengono promosse dal basso da associazioni, laboratori collettivi e gruppi di artisti, decisi a promuovere contronarrazioni storiche, nella consapevolezza che la valenza etica della memoria si dispiega quando si ricordano i torti che abbiamo inflitto, prima ancora di quelli subiti. In tutta Italia ormai sono stati coperti, sostituiti o «risignificati» centinaia di cartelli, quelli che in gergo si chiamano segnaletiche «hackerate» o «aumentate». Fino alla recente petizione, coronata da successo, di intitolare una nuova stazione della metro di Roma a “Giorgio Marincola“, partigiano italo-somalo ucciso nel 1945, e non più ad Amba Aradam, simbolo dell’eccidio coloniale fascista in Etiopia.
Ma se i nomi delle strade sono anche “sintomi”della nostra società, allora la quasi assenza di odonimi dedicati a donne è una sindrome di lungo corso. Secondo l’associazione “Toponomastica femminile” la media di strade italiane intitolate a figure femminili va dal 3 al 5% (per lo più, madonne e sante). Indice di una nuova sensibilità collettiva sono le recenti denominazioni no gender gap, come quella nella zona industriale di Guspini, in Sardegna, interamente dedicata a scienziate o a lavoratrici.
Soprattutto nella nostra epoca, la collettività che decide di farsi carico del passato ha vari strumenti per stabilire quanto i significati inscritti nei nomi delle strade siano condivisi e partecipati. Un esempio sono gli open access data, che permettono di inserire punti di interesse pubblico decisi dal basso, che poi con un po’ di fortuna riescono ad affermarsi anche a livello istituzionale.
Le vie che orientano è dunque una risorsa per allenare l’occhio a leggere lo spazio pubblico e a decostruire i significati delle nostre città. Nella sua esplorazione, Deirdre Mask esorta a superare lo sguardo distratto sulla storia e ci interroga su chi siamo e, soprattutto, su dove vogliamo andare. Consapevoli, più di Totò, che non possiamo farcelo dire dai vigili stradali.
Fonte: www.illibraio.it