È con linguaggio maturo e atmosfera da fiaba che John Ironmonger scrive "La balena alla fine del mondo", un romanzo attuale e di riflessione filosofica, direttamente argomentato sul "Leviatano" di Thomas Hobbes, ma ancor di più sull’importanza dell’amore in tutte le sue forme e manifestazioni. Per ricordarci che la Natura (umana e animale) è, e sarà sempre, l’unica forza in grado di salvarci, anche alla fine del mondo
Non è affatto detto che prevedere l’Armageddon serva infine a scongiurarlo, ma qualche volta sì. Al suo esordio per gli scaffali italiani con La Balena alla fine del mondo, traduzione di Simona Garavelli per Bollati Boringhieri, lo scrittore keniota John Ironmonger, un dottorato in zoologia e già una carriera nel settore dei dati aggregati, affascina lettrici e lettori con una delicata riflessione circa l’importanza del fattore umano anche nelle questioni di politica finanziaria e di economia mondiale: perché nell’attuale logica dei mercati “interconnessi”, dove pure le catastrofi naturali sembrano collegate da mere sequenze di valori numerici, l’unico avvenimento a tutt’oggi non calcolabile resta il ruolo dell’individuo sulla determinazione dei processi collettivi.
Cosa accadrebbe, dunque, se un sofisticato algoritmo fosse in grado di interpretare il “tornaconto” personale fra le variabili necessarie a verificare l’andamento azionario di fronte a crisi sistemiche su scala globale (eventi cataclismatici, esaurimento del petrolio, conflitti d’armi)?
Difficile anche solo immaginare un programma di siffatta complessità; in tal senso, e per meglio agevolarci le idee, è sui toni immaginari di una futuribile Apocalisse che l’autore ci conduce verso l’incantevole penisola di St. Pirain, piccolissimo paesino sulle costiere di Cornovaglia d’improvviso balzato alle cronache a causa di un duplice, straordinario, evento: ancora oggi “parlano (…) del giorno in cui l’uomo nudo venne ritrovato sulla spiaggia di Piran Sands. Fu lo stesso giorno in cui Kenny Kennet vide la balena.”
Di chi si tratti è ben presto detto; Joe “Mistero” Haak, questo il nome del protagonista, è il provvido inventore alla guida dell’avveniristico elaboratore Cassie, programma di analisi quantitativa responsabile di aver provocato il crollo improvviso di una delle più importanti banche di investimento al mondo.
Un errore di calcolo, magari no, ma di certo un pretesto per Joe per sottrarsi alle pressioni del suo contesto lavorativo e, in un disperato tentativo di fuga, ritrovarsi moribondo presso un esterrefatto villaggio di pescatori, senza indugi accorsi in suo aiuto per offrirgli ospitalità e amicizia.
Se sia stato il capodoglio a spingerlo a riva, è lasciato alla fantasia; ciò che è indubbio, invece, è l’immediata integrazione dello straniero in un sistema di relazioni fatte a misura d’uomo, intessuto di faccende quotidiane oltre che improntato sulla reciproca collaborazione. È d’altronde, St. Pirain, un luogo per rifugiati della vita: qui, innamorato di uno dei suoi studenti, lo scrittore-naturalista Jeremy Melon ha trovato conforto nel silenzio dell’anonimato; qui, dopo il suo viaggio di trasferimento dal Senegal, la giovane infermiera Aminata Chikelu ha accompagnato i pazienti nelle ultime ore di malattia; e ancora qui il nostro caro protagonista Joe Haak imparerà a percepire il calore di un focolare domestico e, grazie all’intervento di tutta la comunità, a recuperare immagini e memorie di un passato famigliare troppo a lungo dimenticate.
E sarà proprio questo il momento in cui la narrazione si dispiegherà in tutta la sua circolare struttura, permettendo al personaggio di mettere a frutto le molteplici esperienze accumulate in corso di trama (“Forse sul momento non erano in grado di unire i puntini, ma capivano che i puntini erano lì per essere uniti”, come dichiarato in anticipo di finale).
Già, perché non appena la notizia di un virus potenzialmente epidemico raggiungerà impreparata la penisola di Piran Sands, e la popolazione mondiale inizierà a subire le ripercussioni derivanti dalla carenza di petrolio sugli approvvigionamenti alimentari, sarà proprio l’oramai profeta Joe (Giona?) a riconoscere, tra i fatti di cronaca, le avvisaglie di estinzione in precedenza elaborate da Cassie e, ancor grazie alla divina balena, a escogitare una strategia d’intervento per salvare St. Pirain (ma non solo) dalla tanto temuta Apocalisse.
Attualmente impegnato sul fronte dei cambiamenti climatici con la sua novella The Year of The Dugong, curatore di un blog fatto da sé che con tenerezza ne traduce l’attivismo ambientale, è con linguaggio maturo ma atmosfera da fiaba che John Ironmonger intesse un romanzo attuale e di riflessione filosofica, direttamente argomentato sul Leviatano di Thomas Hobbes ma ancor di più sull’importanza dell’amore in tutte le sue forme e manifestazioni. Per ricordarci che la Natura (umana e animale) è, e sarà sempre, l’unica forza in grado di salvarci, anche alla fine del mondo.
Fonte: www.illibraio.it