Ora la critica la elogia e la accosta a Raymond Carver, Alice Munro e Don Delillo, ma in vita non raggiunse mai l'attenzione che avrebbe meritato: finalmente arrivano anche nelle librerie italiane i racconti di Lucia Berlin (1936-2004), americana, che ebbe un'esistenza difficile, tormentata dalla scoliosi e dalle sue conseguenze, da matrimoni sfortunati, dalla povertà. E che è stata interprete d’eccezione di un genere spesso definito “auto-fiction” o self-fiction”
“Ho sempre creduto che tutti i migliori scrittori sarebbero arrivati – presto o tardi – là in cima, emergendo come panna sull’apice di una torta; diventando noti, amati, citati, insegnati, antologizzati, riconosciuti e trasposti dal cinema, dal teatro dalla musica in altre narrazioni”. Non era ancora accaduto al lavoro di Lucia Berlin, che ora la critica accosta a Raymond Carver, Grace Paley, Alice Munro, William Carlos Williams e Don Delillo… Questo augurio di Lydia Davis è diventato realtà grazie a La donna che scriveva racconti (antologia di 43 testi ora pubblicata in Italia da Bollati Boringhieri, già un caso negli Usa, dove Farrar, Straus and Giroux l’ha proposta con il titolo A Manual for Cleaning Women), che ne celebra infine il talento, e che ripropone più della metà di tutta la sua produzione.
Lucia Berlin basò molti dei suoi racconti su fatti reali della sua vita. “Mia madre scrisse sempre storie vere, anche se non necessariamente autobiografiche”, dichiarò uno dei suoi figli, alla sua morte. Interprete d’eccezione di un genere spesso definito “auto-fiction” o “self-fiction”, ha continuamente rimodellato e reinventato la sua storia personale e famigliare dentro il suo universo narrativo. Lei stessa definisce la sua narrativa “una trasformazione, non una distorsione della realtà”.
Una delle sue voci narranti afferma: “Ingigantisco le cose, e mescolo realtà e finzione, ma non mento mai”, frase che illumina la natura del suo racconto e può essere accolta come una dichiarazione implicita di poetica. La sua vita è stata ricca e piena di avvenimenti e il materiale che vi ha attinto per i suoi racconti estremamente variegato, potente, drammatico. Una donna molto bella che ha avuto una vita difficile e la racconta in tanti piccoli, o meno piccoli, «quadri». Una donna con quattro figli da allevare da sola, che scrive della quotidianità difficile dei lavori che deve fare per mantenerli: la donna delle pulizie, l’infermiera, l’impiegata in ospedale, l’insegnante precaria. Ha vissuto così tante esistenze Lucia Berlin nei suoi 68 anni di vita e ha attraversato così tante esperienze da incarnare una realtà umana familiare a tutti noi. Una vita più che difficile, tormentata dalla scoliosi e dalle sue conseguenze, da matrimoni sfortunati, dalla povertà, e dai lavori tipici degli americani senza radici: ma le esperienze di centralinista, domestica, insegnante precaria o infermiera, e di madre single, forniscono all’autrice un materiale prezioso e vastissimo, che usa per raccontare se stessa con eccentrico, personalissimo talento. E per raccontare il mondo del lavoro nel “sottobosco” degli impieghi umili, malpagati, socialmente invisibili, manifestando un’acuta sensibilità nei confronti della stratificazione sociale e delle sue discriminazioni. I suoi racconti sfiorano temi come quello della brutalità da parte di alcune forze di polizia, del razzismo, delle pastoie del sistema sanitario americano che ancora oggi attirano l’attenzione dell’informazione e dell’opinione pubblica. Ma la sua narrativa, mai “di denuncia” e scevra da ogni sentimentalismo, si dispiega nel registro sommesso di un intima confessione e la sua lingua è stilisticamente così “compressa” da poter essere definita “Flash Fiction”.
Protagonista la narratrice onnisciente, e vari personaggi, secondari ma non poi tanto, diversissimi tra loro: un vecchio indiano americano incontrato in una lavanderia; una ragazza giovanissima che scappa da una clinica messicana di aborti per ricche americane; la suora di una scuola cattolica, mai dimenticata; un’insegnante che lascia un segno positivo nell’evoluzione di una ragazzina. Ma soprattutto, una domestica che tratteggia, lapidaria ma benevola, le «signore» (e anche qualche «signore») per cui lavora. Tanti personaggi di Berlin ricorrono in diversi racconti e vengono ritratti da diverse angolazioni e in diversi ruoli, dando alla raccolta un’evidente coerenza e unità tematica, tutti diversissimi, variegati per sesso, razza, colore e censo; scrive anche dell’America Latina dove ha vissuto e, sottotraccia, delle “interferenze” della politica americana in quella regione nella metà del ‘900. Ma di certo il tratto pittorico dell’autrice – reso in uno stile essenziale, minimalista – contribuisce a fissarli nella mente, insieme a una scrittura ingannevolmente semplice, chiara, essenziale, imprevedibile come la musica jazz e altrettanto ipnotica. Il setting ordinario delle sue storie (una lavanderia, uno studio dentistico, un ospedale…) le servono come scenario e “reagente” alla rivelazione della natura e del cuore umano e l’hanno fatta accostare a Raymond Carver, a Bobby Ann Mason e più in generale all’estetica del “Dirty Realism” degni anni ’80.
Le pubblicazioni delle sue raccolte di racconti rimasero a lungo confinate nel mondo della piccola e media editoria (Turtle Island e Poltroon), anche se con il volume di racconti Homesick vinse l’American Book Award nel 1991 e il valore del suo lavoro venne riconosciuto e sostenuto da scrittori come Lydia Davis e Saul Bellow, che ospitò nella sua rivista The Noble Savage il suo racconto d’esordio. Nonostante questi importanti riconoscimenti non raggiunse mai in vita presso la critica e il grande pubblico la notorietà e il successo che avrebbe meritato. Fu Paul Metcalf a definire la scrittura della Berlin – in una recensione alla sua raccolta di racconti Safe and Sound – “il segreto meglio custodito d’America”. Oggi viene considerata una protagonista indiscussa della narrativa americana del ‘900, non più un outsider ma una voce centrale nel panorama letterario, crocevia nel variegato mondo della più prestigiosa literary influence.
Possiamo vedere qui le radici culturali di Lucia Berlin (musica jazz, Richard Brautigan, Chekhov), e quali sono gli autori che hanno influenzato il suo stile di scrittura (Kmart Realism, Lydia Davis, Autofiction). Fonte: Believermag.com
I luoghi in cui nacque e visse l’infanzia e la giovinezza furono determinati dal lavoro di suo padre, ingegnere minerario: nata in Alaska nel 1936, trascorse i suoi primi anni di vita tra cittadine e insediamenti minerari in Idaho, Montana e Washington. Si trasferì con la madre a El Paso durante la guerra, poi a Santiago del Cile, dove il padre trasferì la famiglia al ritorno dalla guerra. Da adulta continuò a condurre una vita nomade, vivendo prima in Messico, poi in Arizona, New Mexico, NY; a 32 anni aveva già alle spalle tre matrimoni e quattro figli, e una drammatica, quotidiana battaglia contro l’alcolismo; uno dei suoi figli ricorda in quegli anni un trasferimento ogni nove mesi. Più tardi avrebbe insegnato a Boulder in Colorado, e infine, al termine della sua vita, si sarebbe trasferita a Los Angeles vicino ai figli.
Fonte: www.illibraio.it