Il successo planetario del film di Christopher Nolan, ispirato da una biografia Premio Pulizter e dedicato a Robert Oppenheimer, coordinatore del progetto Manhattan che nel 1945 produsse la prima bomba atomica, è l'occasione per riflettere sul ruolo della fisica prima e dopo Los Alamos, dove si concepirono gli ordigni che devastarono Hiroshima e Nagasaki - Su ilLibraio.it l'analisi di Vincenzo Barone, docente di fisica teorica presso l'Università del Piemonte Orientale (la cui ricerca riguarda la fenomenologia delle particelle elementari) e una serie di consigli di lettura
Quando, al momento di installarsi a Los Alamos, Oppenheimer chiese all’amico Isidor Rabi (futuro premio Nobel) di partecipare al Progetto Manhattan, Rabi declinò l’invito: non voleva contribuire – disse – a far sì che il “culmine di tre secoli di fisica” fosse un’arma di distruzione di massa.
Era una preoccupazione che poteva passare in secondo piano davanti all’urgenza di sconfiggere i nazisti, ma, anni dopo, sarebbe apparsa drammaticamente fondata. Hiroshima e Nagasaki cambiarono radicalmente la percezione comune della fisica, la cui storia, da allora in poi, è stata spesso vista come una parabola culminante nella bomba atomica.
Non si può d’altronde negare il fatto che nel lavoro tecnico-scientifico che portò alla costruzione della bomba confluì gran parte della fisica dei decenni precedenti: quella che aveva esplorato e compreso la struttura della materia per mezzo di nuovi, potenti apparati sperimentali, e di uno straordinario strumento teorico, la meccanica quantistica.
Oppenheimer era giustamente soddisfatto di avere accanto a sé a Los Alamos Niels Bohr, uno dei principali artefici – nonché la guida spirituale – di quell’epoca eroica della fisica. Era stato Bohr, nel 1913, a elaborare la prima teoria quantistica degli atomi, combinando la nozione di “quanto” proposta nel 1900 da Max Planck con il modello atomico emerso dagli esperimenti di Ernest Rutherford, che avevano mostrato come gli atomi fossero costituiti da un piccolissimo nucleo di carica positiva attorno al quale si muovevano gli elettroni.
Appunti delle lezioni tenute da Robert Serber a Los Alamos all’inizio del Progetto Manhattan sul cammino da intraprendere per ottenere la bomba. Nel punto 1 si legge: “Lo scopo del progetto è produrre una pratica arma militare, in forma di bomba, nella quale l’energia venga rilasciata da una veloce reazione a catena in uno o più dei materiali che sappiamo sviluppare la fissione nucleare”
La teoria di Bohr era un miscuglio di idee ardite e di concetti classici. Era imperfetta, ma si rivelò fecondissima. E soprattutto pose le basi per il passaggio definitivo dal vecchio al nuovo mondo. Il trapasso – realizzatosi tra il 1925 e il 1927 – fu opera di due genî così giovani da non avere alcun timore reverenziale nelle loro proposte teoriche, Werner Heisenberg e Paul A.M. Dirac, e di due studiosi altrettanto geniali e più maturi, Erwin Schrödinger e Max Born.
La meccanica quantistica che scaturì dai loro lavori, e che fu subito sostenuta nei suoi aspetti concettualmente più dirompenti da Bohr, sconvolgeva – come neanche la relatività einsteiniana aveva fatto – la visione fisica del mondo: alla continuità subentrava la discontinuità, alle certezze la probabilità, e tutto ciò, magicamente, permetteva di comprendere i fenomeni fondamentali della materia e di scoprire nuovi sorprendenti fatti.
L’applicazione della meccanica quantistica alla fisica atomica procedette con grande rapidità (Oppenheimer fu uno dei protagonisti in questa fase) e all’inizio degli anni ’30 la struttura degli atomi poteva dirsi essenzialmente chiarita. Il fronte della ricerca si spostò allora sui nuclei. La scoperta dei neutroni, componenti del nucleo atomico assieme ai protoni, fu il primo passo. Ma non si era ancora in grado di studiare sperimentalmente i nuclei (la radioattività naturale – l’unico fenomeno nucleare noto – era troppo aleatoria per servire allo scopo).
La svolta si verificò nel 1934, quando Frédéric Joliot e Irène Curie riuscirono a produrre degli isotopi radioattivi mediante bombardamento di nuclei con particelle alfa. Cominciava l’epoca della radioattività artificiale: i fisici avevano finalmente trovato il modo di intervenire direttamente sui nuclei atomici e di indurre dei processi nucleari. L’effetto, però, era ancora modesto, dal momento che le particelle alfa, cariche positivamente, non riuscivano a penetrare nei nuclei pesanti a causa della forte repulsione elettrica. Enrico Fermi ebbe allora l’idea di usare come proiettili i neutroni, privi di carica elettrica. Il metodo, messo in atto in una serie di esperimenti a Roma nel corso del 1934, si rivelò efficace, tanto più se – controintuitivamente – i neutroni venivano rallentati.
Bombardando l’elemento naturale più pesante, l’uranio, Fermi e collaboratori ritennero di aver generato i primi elementi transuranici. Ma si sbagliavano. Assorbendo il neutrone, il nucleo di uranio non si era trasformato in un nucleo più pesante: si era spezzato in due. Lo si capì solo quattro anni dopo, quando, alla fine del 1938, Otto Hahn e Fritz Strassmann ripeterono l’esperimento a Berlino e trovarono tra i prodotti di reazione dei nuclei più leggeri.
Il fatto fu spiegato da Lise Meitner e Otto Frisch come la conseguenza di un processo di scissione del nucleo iniziale in due grossi frammenti: ciò che i fisici berlinesi avevano realizzato era la fissione nucleare.
Meitner e Frisch mostrarono anche che il bilancio energetico della fissione poteva essere spiegato sulla base della relazione tra massa ed energia, E = mc2, scoperta molti anni prima da Einstein: nel processo si perdeva circa un millesimo della massa delle particelle coinvolte, e questa piccolissima massa mancante si trasformava in una considerevole quantità di energia, decine di milioni di volte superiore a quella prodotta dalla combustione del carbonio.
Nel gennaio 1939 la notizia della fissione nucleare si diffuse in tutta la comunità scientifica. Fermi, che aveva abbandonato l’Italia fascista approfittando della consegna del premio Nobel a Stoccolma, ne venne a conoscenza mentre si trovava a New York, e capì – come disse in seguito – che “un fenomeno di questo genere avrebbe potuto un giorno far uscire la fisica nucleare dal campo ristretto della ricerca pura, trasportandola in quello delle ‘cose grosse'”.
A determinare, sul piano fisico, le “cose grosse” era il fatto che in ogni evento di scissione di un nucleo di uranio venivano emessi due o tre neutroni, i quali, a loro volta, potevano scindere altri nuclei di uranio e innescare così una reazione a catena. Nella prima metà del 1939 gli sforzi di tutti i fisici nucleari cominciarono a concentrarsi su questo processo. Bohr, di suo, aggiunse al quadro un dettaglio fondamentale: modellizzando il nucleo come una goccia che tende a dividersi in due quando una perturbazione esterna la destabilizza, mostrò che l’isotopo fissile dell’uranio era quello con peso atomico 235, che rappresenta meno dell’1% dell’uranio naturale. Per sprigionare l’energia nucleare bisognava dunque purificare l’uranio, e questo emerse subito come l’aspetto più complicato dell’impresa.
Nel momento in cui si delineò l’obiettivo di realizzare una bomba a fissione (la “bomba atomica”), il dato cruciale da determinare era la massa critica dell’uranio 235, cioè la massa minima necessaria a generare una reazione a catena esplosiva. Se fosse stata dell’ordine delle tonnellate, l’obiettivo sarebbe stato impossibile da raggiungere. Ma, all’avvio del Progetto Manhattan, i fisici già sapevano che la massa critica, con opportuni accorgimenti, poteva ridursi ad appena 15 kg.
Nel frattempo, alla fine del 1942, il gruppo di Fermi a Chicago costruì il primo reattore nucleare. Non serviva ancora a produrre energia, ma solo a realizzare in maniera controllata la reazione a catena. Con i reattori si aprì una seconda via per la bomba, perché in essi si forma, come sottoprodotto, il plutonio 239, un altro isotopo fissile, la cui massa critica è di soli 5 kg.
Tutto questo, in realtà, si seppe solo a guerra finita. A partire dal 1940, infatti, la fisica aveva perso una delle sue caratteristiche vitali, la trasparenza. Le informazioni smisero di circolare e gli sforzi di tutti furono indirizzati alle applicazioni belliche.
Solo alla fine del 1945 la ricerca riprese il suo naturale corso. Ma della consapevolezza del peccato – come disse Oppenheimer – non ci si sarebbe più potuti liberare.
L’AUTORE – Vincenzo Barone insegna fisica teorica presso l’Università del Piemonte Orientale. La sua ricerca riguarda la fenomenologia delle particelle elementari e, in particolare, le interazioni forti. Per Bollati Boringhieri ha pubblicato Relatività. Principi e applicazioni (2004), L’ordine del mondo. Le simmetrie in fisica da Aritstotele a Higgs (2013) e curato l’antologia di scritti di Enrico Fermi, Atomi Nuclei Particelle (2009).
Fonte: www.illibraio.it