Può la libertà – fragile e illusoria conquista del nostro tempo – rivelarsi uno strumento di tortura che occulta gabbie che non avevamo previsto? Valentina Maini è all'esordio nel romanzo con "La Mischia", in cui propone una rete di storie che coinvolgono famiglie borghesi, spacciatori, maniaci, scrittori e... - Su ilLibraio.it un estratto
Siamo nel 2007 in una Bilbao psichedelica, sfinita dagli ultimi fendenti del terrorismo basco. Gorane e Jokin hanno venticinque anni, sono gemelli e figli di due militanti dell’ETA. Cresciuti senza regole, prendono direzioni opposte e complementari: del tutto accondiscendente e passivo, Jokin, batterista eroinomane, sembra ricalcare le orme dei genitori, mentre Gorane, ambigua e introversa, prova a scostarsi dal loro insegnamento rifugiandosi in un mondo astratto che prosegue dentro di sé.
A unirli però c’è un sentimento viscerale, anarchico, incomprimibile. Quando Jokin – che non regge più alla pressione – fugge e i genitori vengono coinvolti in una tragica vicenda, Gorane è preda di strane allucinazioni che la costringono ad andare da uno psichiatra. A Parigi Jokin conosce Germana, una splendida ragazza italofrancese con bizzarre manie da piromane, e inizia a suonare in giro per locali con un gruppo drum’n’bass. Eppure, nonostante la distanza fisica, le vite dei gemelli sembrano destinate a non separarsi mai. Sarà infatti il romanzo di uno scrittore francese a ricongiungerli.
L’autrice de La Mischia (Bollati Boringhieri), Valentina Maini (nella foto di Michele Joshua Maggini, ndr), è nata nel 1987 a Bologna. Ha conseguito un dottorato in Letterature comparate tra Bologna e Parigi e ha pubblicato racconti su diverse riviste. Traduce dal francese e dall’inglese. Con la raccolta di poesie Casa rotta, (2016) ha vinto il premio letterario Anna Osti.
Maini, al debutto nel romanzo, propone una rete di storie che coinvolgono famiglie borghesi, spacciatori, maniaci, scrittori, tagliatori di valigie, cartomanti e donne delle pulizie, e lo fa guardando il caos dritto negli occhi.
Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:
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Jokin
«Lo conosco bene, ma non so niente di lui»
Fu prima dell’incidente di Germana, quando ancora mi facevo. Non mi mancava niente di Bilbao, a parte il mercado della Ribera e il mare a pochi passi, freddo e amico. Non ero venuto a Parigi per spacciare. Andavo in giro per i negozi, le biblioteche, i teatri, dicendo che ero spagnolo e mi serviva un lavoro, uno qualunque. La maggior parte della gente fingeva di non capire e mi spediva fuori, all’inizio credevo davvero che il mio francese fosse pessimo, mon merdique français. Non volevo dire che ero basco. Temevo l’ignoranza della gente, ogni sguardo mi feriva, per questo ero il peggiore di tutti e meritavo di vivere senza soldi, senza soldi da una vecchia sorda italiana. «I baschi portano addosso una maledizione» le dicevo a volte per farle paura. Ero cattivo per colpa dell’eroina. Non so come quella donna riuscì a ospitarmi in casa senza mettersi a urlare ogni volta che le comparivo davanti, forse doveva espiare una colpa molto grave quindi, in qualche modo, le servivo. La sua iniezione di buoni propositi, ogni tanto. Dopo un mese di insistenze, trovai lavoro nella più importante mostra della città: un’artista madrilena aveva scelto Parigi per inaugurare le sue nuove opere e c’era bisogno di molta gente per gestire la baracca. La vecchia aveva saputo che cercavano giovani per certi lavori, mi disse «Ragazzo, presentati domani mattina presto, io non ti ho detto nulla». Eravamo soli nella stanza, eppure sussurrava. Sorda, probabilmente fu la prima a non sentire ciò che aveva detto e si convinse così di non aver parlato. La mattina seguente feci come aveva ordinato la vecchia. Arrivai troppo presto e mi sedetti in un bar di Rue Beaubourg, ordinai solo un caffè, mi comportai onestamente. Non avevo mai alzato la testa verso il cielo mattutino di Parigi e guardando da lontano i tubi enormi del Pompidou mi vennero in mente gli scontri, la morte per soffocamento. Pensai a mia madre, alle luci della Fiestas de La Blanca, poi trovai lavoro come buttafuori. Il primo buco arrivò a sedici anni: foro minimo, dolorosissimo, al centro della mia vena cubitale mediana. Oltre al dolore, non sentii molto. Solo qualcosa di amaro in bocca o nelle narici. Un leggero stordimento. Vomitai aggrappato al water del cesso dei miei pensando che con l’eroina avevo chiuso.
Ma bucarmi mi era piaciuto: era il gesto a farmi godere. Pensare il mio corpo come carne violata, trapassabile, soggetta al massacro. Passai alcuni mesi a forarmi le braccia, i polsi, le dita, le gambe con una siringa vuota. Un martirio puro, una forma di sacralità intima, di rito iniziatico a stretto uso personale. A volte mi foravo con oggetti appuntiti che trovavo in casa, o per sbaglio – credevo – mi cacciavo in mezzo ai rovi o appoggiavo i gomiti sul filo spinato. Poi osservavo il sangue che, dopo qualche secondo di sospensione, faceva capolino dalla mia carne bianca: una tempesta di minuscoli laghi vermigli. Non capivo cosa stesse accadendo, obbedivo, mi scoperchiavo: sotto di me, sotto l’epidermide, c’era uno Jokin che non conoscevo, che nessuno conosceva; era lui che mi faceva scoppiare in lacrime a casaccio, lui che governava le mie mani che picchiavano qualcuno. Era lui a crescere. Credevo fosse lui a suonare, per questo lo cercavo. Desideravo vederlo, conoscerlo a tutti i costi, aprirmi un varco in direzione del mio sottosuolo e chiedergli qualcosa. Da dove viene questa musica, per chi. Io, quell’altro, non crescevo. Schiacciavo la punta delle forbici sulla pelle, sulle labbra, sul cazzo, la avvicinavo alle pupille: il ragazzo con gli occhi bucati. Ero io il ragazzo con gli occhi bucati: non vuoti, non allucinati. Tagliati, come le vene. Tagliata la voce. Tutto il mondo che mi entrava dentro, entrava nella pelle della batteria che punteggiavo ogni giorno di minuscoli crateri. Io che uscivo nel mondo da quei fori, che lo annegavo con la mia musica. Per un periodo pensai che avrei potuto iniettarmi acqua, o aria, o alcool o qualche medicinale innocuo, come se la mia nascente dipendenza potesse mascherarsi da avanguardistica flebo curativa. Pensavo avrei potuto abbandonarmi a questa specie di compromesso, ma quando incontrai di nuovo Arze, e mi bucai per la seconda volta, l’eroina si fece avanti sul serio, slacciandosi le vesti. Il mio corpo trapassato dalla freccia. L’orgasmo che delira in silenzio, senza nessuno a fianco, che ti spara lungo una linea verticale in espansione, diffondendoti. Lei mi terrorizzava. Anche bucarmi, per quanto fosse piacevole, mi terrorizzava. Avevo paura delle iniezioni, avevo paura del sangue degli altri. Pensavo che in ogni siringa appena acquistata si nascondesse da qualche parte il sangue di un malato. Occultato, certo, raggrumato sul fondo del cilindro da un farmacista sadico, desideroso di diffondere, con la malattia, la sua morale. La malattia che piomba nella vita degli esseri deviati e ci si piazza per sempre, raddrizzandoli. Nei sogni l’eroina diventava una donna bianca o un cespuglio di rovi, un suono. Un gatto che mi riempiva le braccia di graffi infetti. La sognavo o era lei a sognarmi: guidava i miei passi con la maestria di chi sa imporsi incubi e visioni; e lei vedeva me, pronto a sbavare. Un bambino che se la fa addosso, blatta, parassita del sangue, un merdoso orologio che segna sempre e solo l’ora della droga: così mi trasformava, mi domava, diventavo suo. Io mi dedicavo a lei.
Il primo giorno di lavoro al museo, prima di uscire da casa della vecchia mi guardai allo specchio appeso alle pareti del corridoio. Da qualche giorno non mi ritrovavo di fronte alla mia intera figura. Non avevo mai avuto l’aspetto di un tossico. Ero un giovane uomo di quasi due metri, dal torace ampio e duro. Somigliavo a un nuotatore, forse, o a uno di quei tizi appostati alle porte dei locali pubblici, pagati per ordinare il silenzio. Avevo il mestiere scritto in faccia. L’artista si chiamava Agacia Gil, non l’avevo mai sentita. Faceva statue di cartapesta, materiali da riciclo, era molto bella nonostante l’aspetto castigato. Una di quelle figure magre e stirate che non mi spostavano di un millimetro. Io di arte non sapevo nulla, forse per questo non rimasi incantato da Agacia Gil, forse per questo sniffavo eroina. I visitatori erano ammessi dalle nove alle venti, a eccezione del fine settimana in cui l’orario veniva prolungato. I colleghi, persino i superiori, mi trattavano con una reverenza eccessiva, impacciata, all’inizio pensai che lo facessero per gentilezza poi capii che io ero il solo, lì dentro, a potermi sentire a casa. Loro erano francesi. Mi guardavano come una focosa chincaglieria esotica. Ovviamente quelle riverenze non mi lusingavano affatto, non solo perché non ero né spagnolo né focoso, ma perché la cortesia mi dava il vomito e mi faceva venire voglia di bucarmi. Un giorno presi da parte il tizio biondo che tutti chiamavano Guillaume e dissi a Guillaume di smetterla con quelle cazzate, io facevo solo il mio lavoro. Siccome non capiva a cosa mi riferissi, gli dissi che in Spagna i rapporti tra colleghi erano molto diversi e che non ero abituato a tutti quei sorrisi, carinerie, pacche sulla spalla. Mentivo, io non avevo mai avuto dei colleghi. Gli dissi di lasciarmi in pace, gli dissi di darmi ordini e che non avrei disturbato. Probabilmente pensò che lo avrei preso a pugni, lui e il suo culetto smagrito simile a quello di Agacia Gil. Dopo un mese riuscii ad andarmene da casa della vecchia che il mesto giorno del nostro addio mi preparò un piatto tipico di terra triestina. Gli dissi che me ne tornavo a Euskadi, altre balle. Non volevo sentirmi in debito con nessuno. Non parlammo quasi, come al solito, ma quando ci incontrammo sulla porta abbandonò una frase nell’aria, a una velocità tale che sembrò scappargli dalla bocca contro volontà, disse «Vai caro, torna a casa». Qualcuno, forse un vicino, iniziò a intonare una canzone, o forse era fuori, in strada, o era lei – maledetta vecchia – riversata sulle mie spalle come un cadavere. C’era freddo, la finestra della cucina tremava mentre da qualche parte continuavano a cantare. Atzo Bilbon nengoen. Ieri. Ero. A Bilbao.
Di solito lavoravo all’ingresso, mi piazzavano lì perché parlavo quattro lingue ed ero l’unico energumeno capace di farlo. Non so quante volte spiegai che, una volta entrati, era opportuno depositare le borse, tenersi i cappotti e seguire cortesemente il corridoio alla fine del quale un collega avrebbe risolto ogni dubbio, indicando la via più adatta per qualunque cosa. Gli spagnoli riconoscevano il mio accento, ma stavano zitti. Probabilmente pensavano che appartenessi alla parte innocua del paese o non avevano voglia di menare le mani. Forse facevo loro pena. Tenevo una bottiglia di plastica che appoggiavo vicino a me, dove capitava, avevo imparato a conoscere il whisky da mio nonno e trattavo quella bottiglietta come un organo, una sorta di appendice. Mio nonno era disperso altrove, nell’oceano. Se le cose si mettevano male e io cominciavo a sentire la disperazione gocciolare da qualche parte, andavo a prendere un poco di tè: uno stupido trucco, vecchio e infallibile. A volte chiedevo se qualcuno ne voleva un sorso, avevo i denti marci, sapevo che nessuno avrebbe accettato di leccare un poco della mia saliva. Io non avrei mai bevuto da quella bottiglietta, se fossi stato qualcun altro. Fu così che conobbi Germana. Lavorava al banco della biglietteria ed era uscita a fumare un po’ di tabacco, appoggiata di spalle al mio stesso muro. Notai subito che aveva un neo sotto le labbra, all’inizio pensai che fosse cenere, non avevo mai visto un neo sotto le labbra, pensavo non si potesse avere. Quando le porsi la bottiglietta, l’afferrò svogliatamente e dopo aver bevuto dalla mia saliva mi disse, sbirciandomi il cartellino: «Tè invecchiato, grazie. Jo-kin».
© 2020 Bollati Boringhieri editore, Torino
(Continua in libreria…)
Fonte: www.illibraio.it