"Tutto questo sarebbe diverso", romanzo (generazionale) d'esordio di Sarah Thankam Mathews, racconta i problemi dei millennial attraverso un linguaggio contemporaneo, e parla di immigrazione e traumi infantili: la protagonista, ventiduenne di origine indiana, arriva a Milwaukee fresca di laurea, per un lavoro come consulente di una grande azienda, ma... - Su ilLibraio.it un estratto dal libro, nella cinquina finalista del National Book Award 2022
Sneha, ventiduenne di origine indiana, arriva a Milwaukee fresca di laurea, per un lavoro come consulente di una grande azienda. Il compito non l’appassiona, ma è ben retribuito. Naturalmente deve convivere con i nervosismi dei colleghi e, a casa, la preoccupazione che le instilla la presenza dell’amministratrice del suo condominio che abita nell’appartamento sotto il suo.
È il primo anno del secondo mandato di Obama, e l’ottimismo si è trasformato in disperazione, ma Sneha sta provando a costruire il suo futuro.
Un pezzo per volta, conosciamo la sua storia. Sneha è arrivata negli Stati Uniti a quattordici anni, insieme ai genitori, in cerca di un futuro più promettente e ora, in piena Recessione, sembrerebbe una delle poche della sua generazione ad avercela fatta: il lavoro le permette di inviare denaro ai genitori, rimpatriati in India dopo le ingiuste accuse rivolte al padre di aver falsificato visti lavorativi. Sneha, però, ha difficoltà ad accettare il suo passato e a comunicarlo agli amici: quasi nessuno è a conoscenza della storia della sua famiglia, e tantomeno dell’abuso sessuale che ha subito da piccola. E anche la sua relazione totalizzante con Marina, una ballerina bianca e bellissima conosciuta attraverso un’app di incontri, vedrà grosse difficoltà per la reticenza di Sneha a parlare di sé, a farsi conoscere.
Tutto questo sarebbe diverso (Bollati Boringhieri, traduzione di Francesca Pellas), romanzo (generazionale) d’esordio di Sarah Thankam Mathews, racconta i problemi dei millennial e affascina con la sua voce sarcastica e una prosa scarna e ritmata, un calco della quotidianità e del linguaggio contemporaneo, che trova la sua espressione nei dialoghi e nei messaggi tra i protagonisti. Non a caso questo libro è stato nella cinquina finalista del National Book Award 2022.
L’autrice cresciuta tra l’Oman e l’India, ed è emigrata negli Stati Uniti a diciassette anni. Ha ricevuto il premio Best American Short Stories 2020 e borse di studio dall’Asian American Writers Workshop e dall’Iowa Writers Workshop.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Vorrei raccontare una storia successa in un’altra vita. Avevo ventidue anni. Ero un bel pezzo di ragazza, neolaureata. C’era poco lavoro. L’economia era una gomma sgonfia. Obama era stato eletto per il secondo mandato. Parlava di lavoro sanità ripresa del paese; diceva: Trayvon Martin avrebbe potuto essere mio figlio. La cosa mi commuoveva, un tale sforzo d’immaginazione mi pareva un atto di coraggio. Ascoltavo i suoi discorsi alla radio mentre mi preparavo per andare in ufficio. Avevo trovato un lavoro. Questo mi rendeva diversa dai miei amici del college. Ero una consulente, o lo sarei stata. A dispetto della mia laurea in storia dell’arte. Una consulente apprendista. Tre bambini piccoli nascosti sotto un completo elegante.
Non mi consideravo una venduta. Sentivo piuttosto di essermi salvata. I miei compagni senza lavoro erano tornati a vivere in famiglia, facevano stage non pagati in lodevoli no profit. Auguravo loro ogni bene. I miei genitori erano lontani, mi avevano lasciata nel nuovo paese affinché mi facessi strada. Ero contenta che per il momento non avessero bisogno di farsi mandare dei soldi. Non era sempre stato così.
Il mio cliente era un’azienda enorme, super ramificata. Di quelle che vengono inserite nella classifica di Fortune 500. Producevano sedili per auto, termosifoni, contapassi, batterie. Il mio capo pretendeva che indossassi i collant. Sei una collaboratrice esterna, non hai copertura sanitaria. Le donne che lavorano per me si truccano, punto. Gli uomini portano la cravatta. Devi sempre essere vestita meglio dei clienti. Così capiscono chi lavora per chi. Li traghettiamo verso la loro idea di successo. L’incarico lo danno solo alle persone a cui sotto sotto vogliono somigliare. Ricordatelo. Prova a truccarti un pochino. Appena appena. Niente di vistoso.
Ascoltavo diligentemente. Lo stipendio era accettabile. Paga oraria previa fattura, nonostante le cinquanta ore a settimana. I moduli delle tasse li compilavo da lavoratrice autonoma. Ma piacevo al capo. Aveva cominciato quasi subito a chiamarmi rockstar. La cosa mi faceva ridere, visto che nella realtà le rockstar salgono sul palco, si esibiscono, scopano un sacco, distruggono la camera d’albergo. Nel frattempo trasudavo competenza, una famelica efficienza. Mi depilavo le braccia, emanavo modestia, mai che un foglio Excel non mi riuscisse al meglio.
All’inizio mi aveva offerto diciannove dollari l’ora. Il suo studio di consulenza era piccolino, solo nove persone. Gli dissi: grazie, ci penso.
M’incamminai fino a un ristorante niente male lì nella mia cittadina universitaria, e mi scolai un bicchiere di vino bianco a metà pomeriggio. Dopodiché lo richiamai. Dissi: Ciao, Peter. Ho ricevuto un’altra proposta, ma voglio lavorare con te. Che ne pensi di trenta. La parete a specchio del bar, nello spazio tra le bottiglie di gin, mi restituiva l’immagine di una ragazza dai tratti delicati, la pelle del colore del cognac, gli occhi assenti per la paura.
Il mio capo rispose come avrebbe fatto un dio che concede una grazia: Ventitré all’ora. Verrai trasferita a Milwaukee, dove ha sede il tuo cliente. Ti pagheremo l’affitto.
Fantastico, dissi, forse aggiungendo: Sono onorata di lavorare per te. Tutte cose senza senso. Quando riattaccai mi misi a gridare agitando i pugni in aria. Il ristorante lo ricordo deserto, ma magari non lo era. Questa non è una storia che parla di lavoro o di precariato. Sto cercando, adesso che è sera tardi, di scrivere qualcosa sull’amore, che per molti di noi va di pari passo con parecchie altre stronzate. All’inizio dell’estate mi trasferii a Milwaukee, una città sonnolenta dove non conoscevo nessuno. I miei genitori vivevano a due oceani di distanza.
Mi coricai sul parquet scaldato dal sole dell’appartamento pagato dalla ditta e decisi che sarei diventata una stronza.
(continua in libreria…)
Fonte: www.illibraio.it