Versioni diverse della sentenza, riferite ad altri personaggi, riecheggiano in una pluralità di fonti, da Erodoto ai grandi tragici, da Aristotele a Plutarco, testimoniando la presenza di una vera e propria tradizione di pensiero, che Umberto Curi ricostruisce nei suoi snodi concettuali talora impliciti. Al riguardo, parlare di un mero pessimismo metafisico risulterebbe riduttivo e fuorviante fuorviante, se non consolatorio. La densità tutt’altro che univoca dell’apologo è rilevata già da Nietzsche, che lo colloca all’inizio della Nascita della tragedia e ne rovescia la valenza corrente in quel dire di sì alla vita in ogni sua manifestazione – compreso il dolore – che costituisce il cuore stesso del sentimento tragico. Una densità che si intensifica e si incupisce quando dall’orizzonte senza Dio dei greci si passa alle denunce bibliche della miseria umana, questa volta al cospetto della potenza divina: il grido di Geremia («Maledetto il giorno in cui io nacqui; il giorno che mia madre mi partorì non sia mai benedetto»), la certezza della radicale nullità del vivere nel Qohelet (tutto è soltanto «soffio», vanitas vanitatum) e la querela angosciosa di Giobbe contro il Signore rimandano alla verità paradossale della fede, alla figura cristologica di Abramo, qui riletta attraverso san Paolo, Kierkegaard e Simone Weil. Nelle sue diramazioni e riformulazioni il motto di Sileno esprime, più che la negatività dell’esistere, l’inattingibilità di un sapere positivamente definito sull’esistenza, e quindi non smette di interpellare sia la ragione dei filosofi sia le forme del pensiero religioso.
Meglio non essere nati
La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche
Al re Mida che gli chiede quale sia la cosa più desiderabile per l’uomo, Sileno, il mentore di Dioniso, risponde perentoriamente: «Non essere nato, non essere, essere niente». Non venire mai alla luce o, se si ha avuto la sventura di nascere, tornare nel nulla quanto prima possibile.
Versioni diverse della sentenza, riferite ad altri personaggi, riecheggiano in una pluralità di fonti, da Erodoto ai grandi tragici, da Aristotele a Plutarco, testimoniando la presenza di una vera e propria tradizione di pensiero, che Umberto Curi ricostruisce nei suoi snodi concettuali talora impliciti. Al riguardo, parlare di un mero pessimismo metafisico risulterebbe riduttivo e fuorviante fuorviante, se non consolatorio. La densità tutt’altro che univoca dell’apologo è rilevata già da Nietzsche, che lo colloca all’inizio della Nascita della tragedia e ne rovescia la valenza corrente in quel dire di sì alla vita in ogni sua manifestazione – compreso il dolore – che costituisce il cuore stesso del sentimento tragico. Una densità che si intensifica e si incupisce quando dall’orizzonte senza Dio dei greci si passa alle denunce bibliche della miseria umana, questa volta al cospetto della potenza divina: il grido di Geremia («Maledetto il giorno in cui io nacqui; il giorno che mia madre mi partorì non sia mai benedetto»), la certezza della radicale nullità del vivere nel Qohelet (tutto è soltanto «soffio», vanitas vanitatum) e la querela angosciosa di Giobbe contro il Signore rimandano alla verità paradossale della fede, alla figura cristologica di Abramo, qui riletta attraverso san Paolo, Kierkegaard e Simone Weil. Nelle sue diramazioni e riformulazioni il motto di Sileno esprime, più che la negatività dell’esistere, l’inattingibilità di un sapere positivamente definito sull’esistenza, e quindi non smette di interpellare sia la ragione dei filosofi sia le forme del pensiero religioso.
Versioni diverse della sentenza, riferite ad altri personaggi, riecheggiano in una pluralità di fonti, da Erodoto ai grandi tragici, da Aristotele a Plutarco, testimoniando la presenza di una vera e propria tradizione di pensiero, che Umberto Curi ricostruisce nei suoi snodi concettuali talora impliciti. Al riguardo, parlare di un mero pessimismo metafisico risulterebbe riduttivo e fuorviante fuorviante, se non consolatorio. La densità tutt’altro che univoca dell’apologo è rilevata già da Nietzsche, che lo colloca all’inizio della Nascita della tragedia e ne rovescia la valenza corrente in quel dire di sì alla vita in ogni sua manifestazione – compreso il dolore – che costituisce il cuore stesso del sentimento tragico. Una densità che si intensifica e si incupisce quando dall’orizzonte senza Dio dei greci si passa alle denunce bibliche della miseria umana, questa volta al cospetto della potenza divina: il grido di Geremia («Maledetto il giorno in cui io nacqui; il giorno che mia madre mi partorì non sia mai benedetto»), la certezza della radicale nullità del vivere nel Qohelet (tutto è soltanto «soffio», vanitas vanitatum) e la querela angosciosa di Giobbe contro il Signore rimandano alla verità paradossale della fede, alla figura cristologica di Abramo, qui riletta attraverso san Paolo, Kierkegaard e Simone Weil. Nelle sue diramazioni e riformulazioni il motto di Sileno esprime, più che la negatività dell’esistere, l’inattingibilità di un sapere positivamente definito sull’esistenza, e quindi non smette di interpellare sia la ragione dei filosofi sia le forme del pensiero religioso.