In un saggio che ha la dirompenza degli eventi intellettuali pronti a fare da segnavia, Zygmunt Bauman mette a tema il fallimento di un’epoca della storia umana, misurandolo sulla insostenibilità della pretesa iniziale.
È l’ambivalenza, infatti, e non l’univocità, la condizione normale in cui ci tocca vivere.
Noi esseri finiti ci condanniamo alla perenne inadeguatezza se ammettiamo soltanto l’alternativa rigida tra l’ordine e l’informe, tra le entità (cose, persone, collettività, situazioni, categorie della mente) che il linguaggio riesce a nominare in modo trasparente e l’imprevedibile, l’indecidibile, l’indeterminato, l’incontrollabile, di cui avvertiamo la presenza minacciosa.
In una simile inadeguatezza - e nell’autoinganno di un’identità certa - finì intrappolata, ad esempio, gran parte dell’intellighenzia ebraica di lingua tedesca, quando tra Otto e Novecento tentò diverse strategie di assimilazione alle élite dominanti. Combattuta e ostracizzata, l’ambivalenza si è presa però le sue rivincite, fino a imporsi quale segno distintivo dei nostri tempi. La postmodernità sembra potersi riconciliare con quanto di precario e di imperfetto – in una parola, di contingente – appartiene all’esistenza. Sembra essere disposta ad accogliere l’ambivalenza come destino condiviso.
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Le sofferenze degli uomini, le loro umiliazioni sono al centro della sua riflessione e della sua partecipazione «Corriere della Sera»
Il «prima» della globalizzazione, un appassionante affresco di sociologia storica tra modernità e postmodernità.
«Modernità e ambivalenza è un libro affascinante e di grande originalità, che racconta la storia di uomini e donne moderni intrappolati nell’ambivalenza».
Agnes Heller, New School for Social Research
«Decisamente stimolante sotto il profilo intellettuale, Modernità e ambivalenza fonde in modo magistrale il particolare e l’universale, lo storico e il teoretico». «Muslim World Book Review»
«Paura, esclusione sociale, produzione del male: sono gli elementi che Bauman ritiene “gli effetti collaterali” proprio di quella globalizzazione che gli ideologi del libero mercato hanno presentato come il migliore dei mondi possibili. Ma come ama sempre ripetere: il pessimismo della ragione non deve necessariamente coincidere con la rinuncia all’azione».
Benedetto Vecchi, «il manifesto»