"Dopo molti anni (forse troppi!) di scrittura ‘al servizio di’, mi è venuta una gran voglia di mettermi al servizio di me stessa: o, meglio, delle cose che avevo voglia di raccontare, dei personaggi che avevo voglia di conoscere, al di là dell’attore che lo avrebbe interpretato…". Su ilLibraio.it la sceneggiatrice Silvia Napolitano racconta il suo primo romanzo, "Quel confine sottile", che segna anche il debutto della serie Black Note di Bollati Boringhieri: "A differenza delle sceneggiature, uno scrittore è sempre responsabile di quello che scrive. Dall’inizio alla fine"
Capita, ogni tanto, che noi sceneggiatori passiamo a scrivere un romanzo. Capita, forse più di frequente, che passiamo alla regia di un film. Ovviamente, una ragione c’è, ed è la stessa per tutti (almeno credo): noi sceneggiatori non abbiamo il controllo del risultato finale, ed è giusto che sia così.
Il lavoro dello sceneggiatore è un segmento del grande lavoro collettivo che porta alla realizzazione di un film o di una serie. È un mestiere di grande artigianato, che a me (non sempre, ma spesso) piace molto. È la dimostrazione di come, con una buona tecnica narrativa e delle regole ormai collaudate, si possano costruire storie e fare arrivare emozioni: la storia del cinema e della televisione lo dimostrano.
Certo, c’è sempre una gran differenza tra la scrittura per il cinema e quella per la televisione: la scrittura per il cinema è, giustamente, al servizio del regista. La scrittura per la televisione è, giustamente, al servizio del pubblico e della sua dimensione industriale. Dico giustamente perché così dovrebbe essere. Ma spesso le intenzioni non corrispondono alla realtà del risultato finale: a volte, il risultato finale è l’esito di mille compromessi, e capita anche che il pubblico nemmeno lo apprezzi.
Insomma, quando scriviamo per la televisione o per il cinema, noi sceneggiatori sappiamo di essere un tassello del grande affresco della scrittura per immagini, a cui diamo un contributo molto importante, certo, ma non fondamentale.
Ecco, è in questo piccolo aggettivo, fondamentale, che c’è tutta la differenza tra uno sceneggiatore e uno scrittore.
Insomma, uno sceneggiatore deve fare i conti con mille altre cose di cui non è responsabile: la messa in scena, prima di tutto, e poi gli attori (quanto conta il modo in cui un attore dice la battuta che tu hai scritto?), e poi il montaggio, e infine l’editing finale. Uno scrittore, invece, è sempre responsabile di quello che scrive. Dall’inizio alla fine. Non ci sono intermediari.
E allora?
Allora è naturale che uno sceneggiatore abbia una gran voglia di paternità (o di maternità…): sempre che abbia un’identità abbastanza forte e che non abbia voglia di delegare ad altri il risultato finale del suo lavoro.
Ecco, è quello che è successo a me.
Dopo molti anni (forse troppi!) di scrittura ‘al servizio di’, mi è venuta, appunto, una gran voglia di mettermi al servizio di me stessa: o, meglio, delle cose che avevo voglia di raccontare, dei personaggi che avevo voglia di conoscere, al di là dell’attore che lo avrebbe interpretato.
Il risultato di questi desideri è un romanzo.
Ci sono state molte cose inaspettate e del tutto impreviste in questo passaggio dalla sceneggiatura alla scrittura di un libro: la prima, e forse la più importante, è che tutti gli strumenti di lavoro che ho usato per tanti anni, si sono all’improvviso dissolti (pur rivelandosi, alla fine, utilissimi). Per tanti anni, ho applicato regole nella costruzione di una struttura, e ho lavorato a lungo sui personaggi prima di scriverli. Tra l’altro insegno sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia, e insegno ai ragazzi proprio questo: in una sceneggiatura il lavoro, anche molto lungo, sulla struttura di un film o di una serie televisiva, e quello sui personaggi, sono fondamentali. Ed è vero, ci credo fino in fondo.
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Ma il romanzo mi ha fatto scoprire la libertà della scrittura: sicuramente questo è stato possibile dopo molti anni di esperienza di strutture e personaggi, eppure non avrei mai pensato che questa libertà potesse essere così totale. Ho scritto questo libro a flusso, senza scaletta (nonostante fosse un giallo), e senza aver deciso nulla dei personaggi: sono stati loro che sono arrivati sulla pagina, e mi hanno guidato a scoprire le loro vite, i loro lati oscuri, i loro traumi. Io li ho solo seguiti. A volte hanno fatto cose che non mi aspettavo, e mi hanno trascinato nelle loro esistenze senza nessun pudore.
E naturalmente hanno aperto anche le mie porte sconosciute, mi hanno fatto scoprire territori che non conoscevo. Certo, non è stato facile resistere alla tentazione di seguire un personaggio magari minore, ma che mi incuriosiva molto: ho cercato il più possibile di mantenere la compattezza della storia e la logica dei fili che legavano tra loro i personaggi. Su di loro non ho mai dato giudizi, come del resto faccio nella vita: insomma, li ho amati molto, tutti. E la sensazione che potranno arrivare a chi legge così come li ho scritti è una gran bella sensazione.
L’AUTRICE – Silvia Napolitano è nata a Napoli, ha vissuto un po’ a Milano, molto a Bari, e ora vive a Roma. Scrive per il cinema e la televisione, e ha scritto film, tv-movie, e serie (tra le ultime: I bastardi di Pizzofalcone tratta dai romanzi di Maurizio De Giovanni e Mina Settembre, diretta da Tiziana Aristarco). Ha fatto parte della giuria del Premio Solinas per vent’anni, e insegna Sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ora è al debutto nella narrativa con Quel confine sottile, che inaugura Black Note, la nuova serie di narrativa noir, italiana e straniera, di Bollati Boringhieri.
Veniamo alla trama del suo giallo: Fabrizio Mieli, psicoanalista, ha in cura Zac, un ragazzino schizofrenico di quattordici anni, bello come un elfo e che ha per amici solo bambini morti. Un giorno Zac gli racconta di aver trovato nel fiume il corpo senza testa di un’adolescente: un cadavere vero, questa volta, non uno dei suoi fantasmi. È quello di Juliette, tredici anni, francese, scomparsa da un campeggio appena fuori Roma qualche giorno prima. Nessun indizio, nessun testimone.
Bruno Ligabue, commissario solitario e con un macigno nel cuore, inizia a indagare, e presto scopre che il proprietario di un bar frequentato da giovanissimi offre da bere, e forse altro, a ragazzine che non sanno dir di no. È una pista, la prima. Ma con Ligabue non è d’accordo Agostina Picariello, la PM che si occupa del caso, donna brusca e decisamente poco conciliante. Il conflitto tra i due è immediato, istintivo: Agostina, infatti, è convinta che sia stato Zac, il ragazzino che l’ha trovata, a uccidere Juliette, mentre il commissario dissente profondamente.
Due piste, due caratteri, due visioni del mondo opposte. Ma Ligabue e Picariello sono assai più simili di quello che pensano: man mano che l’indagine va avanti emergono gli errori, le paure, le mancanze di entrambi. La scoperta dell’assassino passerà per vie misteriose e oscure ma, in questo romanzo corale in cui le vite dei personaggi si intrecciano, insieme alla soluzione del caso anche le verità più profonde di ognuno di loro affioreranno come era affiorato il cadavere di Juliette dal fiume: quella del commissario Bruno Ligabue, una vita solcata dal dolore più profondo che si possa immaginare, e tenuta in piedi grazie alla tenacia e alla passione per il lavoro; e poi quella di Fabrizio, psicoanalista irrisolto; di Raimondo, medico legale scorbutico ma pronto all’amicizia; di Brenda, donna dal carattere forte che stanerà Ligabue dal suo isolamento; di Aurora, luminosa mamma di Zac; dei due coniugi vicini di casa del commissario, anziani e premurosi. E ancora, la verità di ragazzine fragili e insicure, e di un cane psicotico che si fa carico della guarigione propria e di Bruno.
Fonte: www.illibraio.it