"Comincio a temere che la parola generazione sia diventata, sotto la pressione dei discorsi giornalistici quanto di quelli da bar (differenze?), il contenitore di qualsiasi senso ognuno di noi (e il marketing) desideri dargli...". Su ilLibraio.it la riflessione di Greta Pavan, all'esordio con il romanzo "Quasi niente sbagliato". L'autrice cita la scrittrice premio Nobel Olga Tokarczuk e il sociologo Karl Mannheim (secondo cui, senza concepire il divario di classe, non possiamo concepire il divario generazionale...)
Quando mi è stato proposto di scrivere un pezzo sulle battaglie della mia generazione, ho avuto l’impressione che fosse un compito facile: noi, i cosiddetti millennial, siamo quelli con più titoli di studio e meno soldi dei nostri genitori, quelli che non riescono a comprare casa, quelli di gatti e piante al posto dei figli e i primi a invecchiare in diretta sui social, però siamo (ancora) analitici e combattivi, soprattutto quando si parla di -ismi: razzismo, bullismo, sessismo, inclusivismo, ecologismo e così via. Facile, appunto.
Ma una volta finito di scrivere tremila battute utili a mascherare la pigrizia dei miei luoghi comuni, mi è tornata in mente una delle scene più geniali di Ecce Bombo (“Ma ecco laggiù un bel tavolo di giovani, corriamo a intervistarli”). Ciò che avevo scritto era parziale o peggio ancora sciatto, una mensola attaccata al muro con chiodini da cornice, dove i chiodini erano la premessa del mio ragionamento: che cosa intendiamo quando parliamo di generazione?
Può ancora questo termine ombrello sotto cui si rifugiano le grane di giovani e vecchi apportare un contributo al tentativo di interpretare la complessità dei tempi? È davvero così solido questo noi a cui mi riferisco come a un monolite? No, per niente. Allora ho provato a fare ordine, partendo da due punti di vista opposti tra loro, espressi da due persone che temo non avranno mai un’occasione di confronto.
Punto di vista numero 1 (o red corner, mi diverte pensare a un incontro di boxe). Alcune settimane fa, durante la presentazione di un saggio sulla longevità edito da Il Mulino, una donna in platea prende la parola per osservare che il concetto di generazione è un orpello artificioso che nella quotidianità non aiuta a risolvere un bel niente, uno sfogo emotivo travestito da teoria sociologica che semmai “serve solo a metterci gli uni contro gli altri”, insomma a farci agire come tifoserie isteriche (sarà facile per la mia generazione indovinare l’età di questa donna).
A quel punto la reazione della sala è scomposta, il pubblico borbotta e i relatori, molti dei quali sono esponenti di centrosinistra, si passano il microfono con i sorrisi tesi: perché la riflessione, a pensarci bene, è ingenua solo in apparenza.
Il sollievo sadico di tirare in mezzo le differenze generazionali è un fatto noto: non è confortante prendersela con i boomer, lanciare loro addosso questa etichetta come fosse la peggiore offesa possibile, un’accusa mista di vampirismo economico, analfabetismo digitale, machismo e benaltrismo (sugli -ismi: vedi sopra)?
Quasi come bestemmiare per sopportare il dolore di una slogatura, a suo modo aiuta. È lo stesso piacere sadico, immagino, che prova un sessantenne nel tacciare i ventenni di nessuna disponibilità alla fatica, facili all’offesa, attenti alla forma ma ignoranti sul contenuto, capaci solo di pretendere prima ancora di avere imparato. È il sollievo, in breve, che provoca il senso di appartenenza.
Dunque, tornando al convegno, la signora potrebbe avere ragione a preoccuparsi: che benefici può portare questo scontro di frustrazioni? Eppure, mentre i relatori riprendono il controllo e imbastiscono un commento sulla difficoltà di “fare collaborare cinque diverse generazioni nella stessa azienda”, realizzo che non c’è bisogno di lavorare nel Diversity Management di una multinazionale per sapere, per esperienza quotidiana, che sì, siamo così diversi e sì, questo genera conflitti – di quelli tangibili, pratici, che spostano le traiettorie – e no, questi non spariranno soltanto imponendoci l’empatia.
Quindi, punto di vista numero 2 (blue corner?). In un articolo per Words Without Borders, Olga Tokarczuk – premio Nobel per la Letteratura – sostiene che oggi, più che in ogni altra epoca storica, l’appartenenza generazionale sia un elemento identitario di estrema rilevanza, arrischiandosi a parlare di generational tribes, tribù generazionali.
“Adesso” scrive, “il divario tra nipoti e nonni è più ampio di quello che prima esisteva tra New York e una piccola cittadina polacca come Sandomierz. E quello tra bisnipoti e bisnonni… forse per questo confronto dovremmo ricorrere a distanze interplanetarie“.
Mi incuriosisce l’inserimento del fattore geografico nel ragionamento di Tokarczuk, perché mi sembra suggerire l’esistenza di confini diversi e più forti di quelli a cui siamo abituati, confini che corrono all’interno degli stati e non sul perimetro. Come a dire: identità anagrafica batte identità nazionale.
È sempre stato così? I miei nonni avrebbero trovato degli argomenti di cui discutere durante una cena con i loro corrispettivi giapponesi, peruviani, marocchini? Dubito; e per quanto mi riguarda, è verosimile supporre che avrei una conversazione più fluida – non necessariamente più ricca – con una trentenne di Taiwan che con una settantenne mai uscita da Saronno. Ma per quanto affascinante, è chiaro che questo esercizio di immaginazione poggi su approssimazioni intollerabili, oltre che sulla mia ignoranza delle culture di cui non leggo notizia nella mia bolla: sentirei la stessa intesa con una trentenne di Dacca, capitale del Bangladesh? L’algoritmo non me lo dice, il Bangladesh non esiste.
Senza contare che basta uscire da Milano e fare un giro nelle province per constatare il contrario di quanto afferma Tokarczuk: gli equilibri famigliari si basano spesso su una collaborazione intergenerazionale di cui giovano tutti, in particolare quando ci sono dei bambini di cui prendersi cura; i nonni, pur essendo fondamentali ovunque, qui costituiscono i gangli delle reti sociali.
Fuori dalla città, l’incontro generazionale – a differenza di altri – è in apparenza meno riottoso.
In sintesi, la teoria di Olga Tokarczuk mi attrae ma, di nuovo, mi sembra parziale (l’articolo su WWB, però, è una delle cose più interessanti che io abbia letto negli ultimi anni: recuperatelo).
Comincio a temere che la parola generazione sia diventata, sotto la pressione dei discorsi giornalistici quanto di quelli da bar (differenze?), il contenitore di qualsiasi senso ognuno di noi (e il marketing) desideri dargli.
Confrontarsi con la sciatteria del linguaggio, mia e altrui, mi fa realizzare che io, sulle battaglie della mia generazione, non posso dire granché.
Come Vito, il personaggio di Ecce Bombo di cui sopra, saprei forse fare la giovane – ma si tratterebbe di una narrativa troppo facile, confezionata per un pubblico poco esigente e in cerca di rassicurazioni, su di sé o su di noi (noi!, noi chi?). La sciatteria della lingua è sciatteria del pensiero e la sciatteria del pensiero è confortevole anche quando racconta di un conflitto: ci illude di indicarlo mentre lo sta, in verità, mettendo a distanza. Se il conflitto generazionale c’è (e c’è); se si vuole parlarne per magari farne qualcosa (sarebbe il caso); ecco, allora la sciatteria delle parole è un ostacolo.
E come è spesso utile fare in caso di nebbia mentale, torno all’origine dei concetti. Ricostruire le tappe attraverso cui i concetti si sono modificati, arricchendosi o sbiadendosi qui e là, mi sembra il migliore tentativo di onestà che posso fare nello spazio di questo pezzo.
Ecco, quindi, il punto di vista numero 3 (green corner o un colore a scelta).
Karl Mannheim è stato uno dei primi sociologi a considerare il concetto di generazione come una faccenda qualitativa e non solo quantitativa. Siamo nella prima metà del Novecento. Tra le conclusioni a cui giunse, affermò che una generazione non è composta solo da coloro che sono nati e invecchiati insieme, ma dagli individui che hanno avuto “la possibilità di partecipare agli stessi avvenimenti, contenuti di vita, ecc.” e – occhio, ci siamo – “di farlo partendo dalla medesima forma di coscienza stratificata” (Das Problem Der Generationen, 1928). Ecco che cosa ci siamo dimenticati nel corso di cento anni: la coscienza stratificata, cioè la coscienza di classe. Secondo Mannheim il concetto di generazione richiede quello di stratificazione sociale. Senza concepire il divario di classe non possiamo concepire il divario generazionale. Insomma è la divisione in classi, ancora lei, che è rimasta viva e vegeta anche se il dibattito pubblico e la politica si rifiutano di nominarla; ed è, anzi, più viva e vegeta di prima.
Come si può, per esempio, interpretare il dibattito sulla legittimità dei jet privati, sull’accesso alla casa e sul lavoro senza fare un discorso di classe, laddove la classe non riguarda solo il conto in banca, ma anche un’aspirazione, un’estetica, uno spettro politico, una strategia per raccontarsi e raccontare il mondo?
Il pensiero di Mannheim, però, si spinge oltre: la classe sociale non è solo una questione tra generazioni, ma dentro le generazioni. Senza inserire la classe sociale nel discorso, parlare dei millennial è come parlare dei mammiferi: osservati da quell’altezza semantica spiccano solo gli elementi che li accomunano tra loro e che li distinguono dagli uccelli, ma basta zoomare poco per capire che servono categorie più dettagliate per confrontare un cervo e un macaco. Il divario, quindi, è anche intra-generazionale e quel divario si chiama classe sociale (concetto che a sua volta andrebbe aggiornato rispetto alla nostalgia sessantottina che ancora prova il centrosinistra – una specie di classe intersezionale?). L’appartenenza anagrafica batte l’appartenenza nazionale: più sì che no. Ma l’appartenenza di classe batte l’appartenenza anagrafica. Forse perché la classe le batte tutte, sempre, è solo che parlare di generazione, soprattutto nei termini social, diluiti e campanilisti di oggi, ci ha permesso di scordacene. Della mia generazione non so granché, dicevo. Questi millennial io non so chi siano. Però so chi vorrei che fossero: quelli che tornano a usare le parole giuste, anche quando fanno paura.
L’AUTRICE E IL LIBRO – Greta Pavan è una redattrice ed editor freelance classe ’89. Si è laureata in Comunicazione interculturale a Torino e ha studiato editoria alla Scuola di scrittura Belleville.
Con il suo romanzo d’esordio, Quasi niente sbagliato (Bollati Boringhieri) è giunta in finale nella 35esima edizione del Premio Calvino.
Il libro narra la storia di Margherita, nata nel 1990 da una famiglia veneta emigrata in Brianza alla fine degli anni Cinquanta. L’ambiente dell’hinterland per la protagonista è asfittico e deprimente. Nella sua famiglia, e nel contesto in cui vive, c’è una devozione maniacale al lavoro, unico parametro di giudizio e definizione del sé.
Margherita spesso viene fatta sentire inadeguata. La ragazza sogna di diventare giornalista e si trasferisce a Milano, ma le esperienze professionali e umane sono talmente deludenti che, alla fine, riprendendo il ricordo di un (fantasticato?) suicidio passato, ruba una vecchia pistola…
Fonte: www.illibraio.it