Un documento eccezionale per la Giornata della Memoria In occasione della Giornata della Memoria pubblichiamo questa lettera tratta dal libro di Mara Fazio, Dal giardino all’inferno. Nel 1928 Ludwig Lindner, un liberale protestante, viene nominato console della Repubblica di Germania a Genova e sposta in Liguria la sua famiglia, composta dalla moglie, Elisabeth Binswanger, di […]
Un documento eccezionale per la Giornata della Memoria
In occasione della Giornata della Memoria pubblichiamo questa lettera tratta dal libro di Mara Fazio, Dal giardino all’inferno.
Nel 1928 Ludwig Lindner, un liberale protestante, viene nominato console della Repubblica di Germania a Genova e sposta in Liguria la sua famiglia, composta dalla moglie, Elisabeth Binswanger, di famiglia ebraica, e dai figli Lore e Wolfgang. Lore era la mamma dell’autrice di questo libro.
Tra i due rami della famiglia – quello che resta in Germania e quello trapiantato in Italia – intercorre un fitto carteggio: centinaia di lettere scritte con cadenza regolare dalla nonna Lina e dalla sua nipotina Anneliese, destinate ai parenti «italiani». Trascritte e tradotte nei loro passaggi più importanti, queste lettere rappresentano ora un documento eccezionale, che ci permette di vivere in presa diretta le vicende di una famiglia ebraica tedesca dall’ascesa al potere di Hitler, nel 1933, alla deportazione delle due donne, nel 1942. Dalla serenità di un giardino sulle rive del Danubio all’inferno del Lager.
Anticipiamo qui un estratto dal libro, la lettera nominata “Lettera senza francobollo”
Prima edizione gennaio 2023
© 2023 Bollati Boringhieri editore
Da Lina, dopo Milbertstshofen, non si avrà più alcuna notizia. Saputo della deportazione, mia madre Lore scrive alla nonna una lettera che sa di non poterle più spedire. La chiama «Lettera senza francobollo» e la con¬serva tra le lettere di Lina.
Rapallo, giugno 1942:Cara Omama, qui c’è la tua ultima lettera da Monaco, la tua lettera di addio. Quando ci è stata recapitata, sapevamo già che erano venuti a prenderti per portarti a Theresienstadt. Una lettera di addio è una rinuncia per sempre, è molto più di un testamento il cui autore si preoccupa di continuare a disporre dei propri averi anche dopo la morte. Tu non disponi di nulla: non perché ti hanno preso tutto, ma perché d’ora in avanti, tra te e noi, non ci sarà più nessuna moneta in comune. I soldati, andando in prima linea, lasciano forse testamento? Come un soldato al fronte ti vedo procedere verso la tua desti¬nazione davanti ai manganelli della Gestapo a testa alta, come se fossi orgogliosa di essere stata scelta come nemica a quasi settant’anni, mentre ai tuoi figli e nipoti, per questa volta, concedono clemenza e non li mandano al fronte, né con loro, né contro di loro.
Non hai voluto sottrarti al peggio, non hai seguito il nostro appello in un paese straniero che offriva salvezza e ora ci abbandoni e vai avanti, in prima linea. E noi continueremo a vivere, noi, i tuoi nipoti, dormiremo su letti morbidi, mangeremo a una tavola imbandita, «vivremo» come le altre persone, anziché soccombere a questa umiliazione.
O dovremmo forse accettare la scusa che tu hai pagato per tutti noi e lo dobbiamo solo a te se noi, i tuoi piccoli, siamo ancora in vita, anziché versare altre vittime a Hitler? Non abbiamo fatto leggere la tua lettera alla mamma. Puoi perdonarci anche questo? Credo che dobbiamo aiutarla a superare la sofferenza fisica e psicologica e, nel miglior modo possibile, a continuare a vivere. Non parla volentieri di cose tristi – è terribile, scrivo di «cose tristi» come se questi fatti orribili non riguardassero la nostra intera esistenza –, ma so che pensa soltanto a cose tristi. Persone come lei – la conosciamo veramente, tu e io, la mamma? – non parlano di quel che accade dentro di loro. Rovesciano la propria vita interiore tutta dentro se stessi e la proteggono da ambo i lati con una parete sicura, sulla cui superficie esterna e liscia si consuma il rapporto con il mondo attorno.
È una parete spietata, senza via d’uscita, fragile come uno specchio. O forse Hitler ci ha intimoriti al punto che in cuor nostro, insieme e con la stessa rabbia, riusciamo a sentire ciò che è essenziale, ma tra di noi non riusciamo a parlare d’altro che della vita quotidiana, quella «vita quotidiana» che ti sei lasciata alle spalle? Capisci ancora la nostra lingua? In che modo pensi a noi qui, con dolore, disprezzo oppure con un amore infinito, ormai incomprensibile per noi, di cui non siamo degni? E così inizio la mia risposta a te con delle domande. Non so quando finirà questa lettera, ma spesso mi scapperanno sicuramente altre domande. Agli eroi non si dovrebbero rivolgere domande, ma tu per me sei molto più una santa a cui mi è permesso chiedere. L’ultima volta che sono stata a casa tua a Monaco, avevi ancora la tua stanza nell’appartamento che ti era permesso condividere con altre quattro signore ebree. Con le poche cose che ti avevano lasciato, ti eri procurata di nuovo un nido. Orgogliosa come un naufrago che, con i beni rimastigli, ha messo radici su un’isola per una nuova vita, mi hai condotta nel tuo nuovo alloggio, e quando ho dato un’occhiata intorno hai cercato il mio sguardo e mi hai chiesto se riconoscessi ogni cosa e se non fosse davvero accogliente – il tavolo rotondo Biedermeier insieme al sofà, la scrivania e la libreria provenienti dal salone, il cassettone e la lampada a stelo e il vaso di Meissen della «stanza verde», il tappeto grande della sala da pranzo (risvoltato sui due lati lunghi), alla parete due immagini della Theresienwiese che erano state nella veranda a Regensburg. Sul cassettone c’erano delle foto di famiglia: i tre nipotini, noi due e Anneliese nel giardino a Regensburg, una foto da bambino di Wolfi vestito da marinaretto, io a diciotto anni e la foto di famiglia più recente scattata a Rapallo, la stessa esposta anche a casa di «quell’altra famiglia», la stessa foto degli stessi nipoti, qui e lì, a pochi minuti di distanza, eppure così lontane.128 Se riconoscessi ogni cosa? A quel punto, per non gridare forte, ho chiesto se il divanetto nell’angolo non si trovasse in passato nel giardino d’inverno a casa di Tante Martha. «È vero – hai detto – e sopra si dorme davvero bene, anche senza materasso, prima credevamo di poter dormire solo su un letto». E poi c’erano il tè e uno Stollen fatto in casa, come quello nel tuo libro di ricette scritto apposta per me, che mi hai spedito a Natale – purtroppo incompleto – affinché lo sapessi al sicuro nelle mie mani prima che fosse troppo tardi. Non mi andavano il tè e lo Stollen, avrei voluto solamente piangere e rimanere lì, non lasciarti sola, perché non potevo portarti con me e all’epoca nemmeno giù da noi ti era più permesso vivere.
Quanto ancora lo sarà per noi, per la mamma?
Dovevo parlare di questa preoccupazione o sottacerla? Ma di cosa dovevo parlare, o forse ho sempre e solo scrollato la testa, non saprei. Mi trovavo in quello stato che mi capitava nella vita ogni volta che ero disperata, quasi avessi ricevuto il dono di osservare la mia sofferenza nel momento decisivo, improvvisamente come dall’esterno, quasi possedessi una seconda anima intenta ad aiutare quell’altra a superare il suo dolore con fredda tranquillità, a minimizzarla. Allora ho detto, credo, che lo Stollen era buonissimo, come solo tu lo facevi, e tu hai detto che non era affatto possibile, mancava tutto, le tue tessere erano contrassegnate con la stella e quindi non c’erano che mezze razioni, tuttavia la bra-va signora Hauser ogni tanto dava una mano regalandoti qualcosina di suo, e quella volta era ovvio che il dolce fosse migliore, per la mia visita.Uscire con la fascia sul braccio, dicevi, era la parte peggiore, in quanto a casa, tra le proprie quattro mura – e grazie a Dio le avevi ancora – lo si riusciva a sopportare più facilmente. Abbiamo chiacchierato dei ricordi delle nostre vacanze estive a Regensburg, delle marachelle di Wolfi nel cortile della fabbrica, dei modi di dire della nostra infanzia dorata, di Opapa e di Tante Martha, che non hanno dovuto più patire «questo». Anneliese, fino a quel momento, continuava ad andare regolarmente a scuola, la vedevi di rado, ma il giorno dopo, la domenica, sarebbe arrivata in città e allora saremmo rimaste entrambe a cena da te. Quella domenica si celebrava la «festa della mamma». Si diceva: «Il popolo tedesco onora le sue madri». Tutte le madri? No, soltanto le madri «tedesche» e «tedesco» oggi è un concetto nuovo. Non serve a nulla l’essere stata insignita, durante la prima guerra mondiale, della croce di ferro per il servizio ausiliario in patria. Nemmeno io appartengo più al popolo tedesco,129 né lo desidero, quindi non partecipo alla festa della mamma. Questo pensavo, e sono rimasta un bel po’ davanti al negozio di fiori, come se la mia unica difficoltà fosse scegliere tra tulipani, rose o violette. Poi alla fine sono entrata, perché mi è venuto in mente che anche quelle «dell’altra famiglia» ricevono fiori in regalo per la festa della mamma.
Ho comprato un mazzo di cosmee, che non reggono a lungo, non oltre il nostro addio. A mezzogiorno siamo andate da Onkel Hermann, che, malgrado i suoi 78 anni e tutto il resto, era davvero di buonumore o perlomeno fingeva di esserlo. C’era anche Anneliese e io non riuscivo a smettere di meravigliarmi per la sua allegria priva di ombre e per la sua spensieratezza all’apparenza quasi superficiale. Pochi mesi dopo è stata deportata e dopo la sua cartolina, quella volta, da Piaski, non abbiamo ricevuto più sue notizie. La cosa buona è che sia riuscita a sposare il suo ragazzo, Hans, andando via così insieme a lui. Onkel Hermann mi ha dato una ricetta per la conserva di zucca in agrodolce, l’ho incollata nel tuo libro di ricette. Anche le ricette di cucina sono eredità. Non importa se uno le mette in pratica. Alla sola lettura suscitano ricordi vivi.Il giorno dopo ho proseguito per Berlino, dove dovevo frequentare un corso di quattro settimane sulle indagini di mercato, tre giorni dopo però i miei genitori mi hanno richiamata in Italia perché intanto la situazione della guerra si era ulteriormente inasprita. Le truppe tedesche avevano occupato l’Olanda e il Belgio e ci si aspettava l’entrata in guerra dell’Italia da un momento all’altro. Allora me ne sono andata direttamente a casa e non ti ho più rivista.
La cosa buona è che, in quell’ultimo incontro, ho potuto parlarti di Cornelio e del nostro patto segreto. Così sai chi è e questo è fondamentale per tutto ciò che verrà. Dio solo sa quando potremo sposarci. Le leggi razziali italiane vietano il matrimonio tra italiani ed ebrei, e gli stranieri per metà ebrei vengono considerati tali. Lui inoltre è un impiegato statale e in quanto tale non può assolutamente sposare una straniera. Cornelio sostiene che malgrado tutto un giorno ci riusciremo, perché non ha alcun dubbio che Hitler e le sue leggi saranno sconfitti. Ma quando? Si può credere alla liberazione mentre le truppe tedesche invadono da ogni parte? Nelle ultime notti Genova è stata bombardata pesantemente.
Una bomba è caduta sulla clinica neurologica e Cornelio era lì, con un infermiere, a spegnere l’incendio da solo. Pochi minuti dopo, come per miracolo, ha ricevuto la mia telefonata da Rapallo. Il più delle volte è impossibile farcela.